martedì 25 aprile 2017

LIVE IN CONCERT:GHOST - POPESTAR TOUR + ZOMBIE


GHOST - POPESTAR TOUR + ZOMBIE
ALCATRAZ, MILANO 19/04/17













E' approdato anche in Italia il "Popestar tour" dei Ghost di Papa Emeritus III; e visto che negli ultimi mesi hanno dominato gli ascolti del sottoscritto, portandolo ad essere un fan sfegatato del gruppo, non potevo perdermi questo unico appuntamento italiano. I Ghost continuano il loro processo di crescita, almeno sul piano della popolarità; è evidente come questo papa alternativo - prima teschio più cattivo, ora più "mimo" carico di charme - abbia un certo appeal sul pubblico, mentre l'identità misteriosa (non come una volta) dei musicisti senza dubbio affascina; inoltre, cosa fondamentale e non da sottovalutare, dietro l'apparenza la musica c'è, ed è di ottima fattura.
Mi appresto dunque a fare un breve resoconto del concerto tenutosi all'Alcatraz nel bel mezzo di una settimana di Aprile, tre giorni dopo la santa Pasqua:il che fa un certo effetto, se si pensa che subito dopo questa festa cristiana così importante sia arrivato in terra nostrana un papa opposto a quello noto, dissacrante e decisamente anticlericale.
L'attesa è stata allietata dalla musica degli Zombi - duo svedese polistrumentista - che ha proposto una selezione di brani progressive-elettronici:molto bravi su un piano strettamente tecnico, ma non particolarmente digeribili dopo un pò che li si ascolta; la mancanza di un vocalist è chiaramente penalizzante, ma per sonorità e tematiche, alla resa dei conti sono stati un buon antipasto a quello che poi è stato il vero show imbastito dai Ghost; show che non ha presentato sorprese particolari (la setlist del gruppo è piuttosto statica, tappa dopo tappa), ma che ha ammaliato tutti i presenti, mostrando una band in splendida forma seppur rinnovata quasi per intero; anzi, i Nameless Ghouls attuali risultano essere addirittura più vivaci e coinvolgenti dei loro predecessori, e davvero bravi tecnicamente. Quando "Square Hammer" inizia a picchiare duro (splendida scelta di apertura), il palco si illumina mostrando la scenografia "da chiesa" allestita dalla band:una decorazione in rosone che raffigura simboli satanici, Modificala batteria sostenuta da rifiniture in marmo, e piastrelle bianche e nere tipiche dei luoghi di culto. Sembra di essere davvero in una chiesa "diversa", e l'effetto dell'entrata del "nostro dis-pater nostra alma-mater" Papa Emeritus III che balza sulla parte alta del palco avvolto da una nuvola di fumo (come una vera entità diabolica), rende il tutto ancora più efficace e sinistro.
Il Papa si presenta con la mitra (ovviamente), avvolto da un saio nero e viola, intona le prime note e lancia il ritornello, cantato all'unisono da tutto il pubblico:"Are you on the square? are you on the level? are you ready to swear right here right now before the devil?". La risposta al quesito è ovviamente positiva, e il pubblico assiste affascinato alle successive "From the pinnacle to the pit" e "Secular haze". In "Con clavi con Dio", il frontman tira fuori un turibolo dal quale fuoriescono scie di incenso e subito dopo parla con il pubblico, facendo battute e raccontando favole distorte:del resto, i Ghost sono una band che sì, tratta argomenti contro la chiesa cattolica e invocazioni a Satana, ma sempre con autoironia e senza mai prendersi troppo sul serio; è puro intrattinemento "nero", e Papa Emeritus sa reggere la scena come pochi altri, con il giusto carisma ed una grande presenza scenica.
Poco prima di "Body and blood", Emeritus accenna anche qualche parola di italiano (ricordo "linguini" e "mascarpone", riferendosi alla nostra cucina definita "very very good"), salvo poi ricordare a tutti che la canzone successiva esprime l'amore incondizionato per un piatto di "human brain and flesh" (cervello e interiora umane). Il pubblico impazzisce quando i Nameless Ghouls accennano i primi accordi al rallentatore di "Cirice", e il boato si ripete non appena i riff diventano incalzanti come nella versione da studio; ecco, un altro punto a favore dei Ghost è proprio questo:tutte le canzoni proposte suonano quasi esattamente come quelle originali, e questa è dimostrazione di bravura e di limpidità, perchè non ci sono trucchetti, non c'è autotune nè fronzoli artefatti in quello che viene proposto.
Anche "Year zero" è introdotta da un grido generale di apprezzamento da parte del pubblico, ed è in questo contesto che vengono presentate al pubblico le "sisters of sin" (che altro non sono che due donne vestite da suora) con tanto di siparietto comico dove il papa invita a prendere la benedizione dalle coppe (contenenti ostie) senza pensare di toccare o palpare le "sorelle".
Il momento più esaltante resta però quello di "He is", introdotta dal breve interludio "Spoksonat":questo è l'inno del gruppo in tutto e per tutto, e sentirlo cantare dalla folla in coro e da Papa Emeritus III avvolto nella penombra per poi essere "illuminato" nel momento esatto del ritornello, è qualcosa che non può non rimanere stampato nella memoria. Aspettavo questo momento con ansia, perchè "He is" è uno dei miei pezzi preferiti e le attese non sono state tradite:la canzone spacca anche dal vivo e l'interpretazione di tutta la band è davvero impeccabile.
Le successive "Absolution" e "Mummy dust" hanno poi fatto da preludio al gran finale, affidato a "Ghuleh/Zombie queen", simpatico brano che parte in sordina, lento e delicato, per poi trasformarsi in un rock'n'roll sfrenato e trascinante. 
C'è tempo per l'ennesimo discorso del Papa - che ha interagito davvero molto con il pubblico - seguito dalle ovazioni dedicate agli "innominabili" Nameless Ghouls,  e da una singolare richiesta al pubblico: in cambio di un'ultima canzone, tutti avrebbero dovuto gridare a squarciagola "sì" ad una domanda semplice semplice:"volete bene al Papa?". 
Inutile dire come è andata a finire:il bis è affidato a "Monstrance clock", dedicata "all'orgasmo delle donne", e anticipata dalla benedizione del deus ex-machina:"prendete questa notte ed andate ad accoppiarvi tutti". E così cala il sipario mentre la coda della canzone svanisce lentamente, con quasi tutto l'Alcatraz in visibilio che continua ad intonare "come together, together as one; come together, for Lucifer's son".
La tappa milanese è stato l'undicesimo sold-out del loro tour, a riprova di come le chiacchiere intorno al gruppo degli ultimi tempi - e le ormai rivelate identità del frontman e dei vecchi membri, fino a poche settimane fa appena sospettate ma mai certe - non abbiano minimamente scalfito gli aficionados del combo svedese, che continuano a seguire e ad idolatrare la band; anzi, tutto ciò sembra aver rinvigorito l'attenzione nei loro confronti, e non mi meraviglierei se le voci che gravitano intorno ai Ghost alla fine non si tramutino in un grande ritorno in termini di pubblicità e visibilità.
Il pubblico milanese è rimasto senz'altro soddisfatto, e sono pronto a scommettere che se ci fosse la possibilità di rivederli dal vivo a breve, si riverserà di nuovo in massa sotto al palco del papa per assistere ad un nuovo, macabro, ma divertentissimo "rituale".



domenica 16 aprile 2017

RECENSIONE:RED HOT CHILI PEPPERS - THE GETAWAY (2016)


RED HOT CHILI PEPPERS - 
THE GETAWAY (2016)
LABEL : WARNER BROS.
FORMAT : 2 LP LIMITED PINK VINYL SET
(TEN BANDS ONE CAUSE EDITION)





"Sarà un album diverso, dove sperimenteremo un nuovo sound, più vicino al funk e all'R&B". 
Questo è ciò che avevano detto i Peppers mesi prima che venisse distribuito "The getaway", undicesima fatica in studio del combo californiano. L'idea di chiamare Danger Mouse (co-creatore dei Gnarls Barkley, e già dietro le quinte di alcuni lavori di Beck e Gorillaz) a produrre, aveva dato credito a questa sterzata, che sinceramente preoccupava non poco il sottoscritto. 
Le ultime uscite dei Red Hot, infatti, non erano state un granchè:"Stadium Arcadium" era un'enorme accozzaglia di suoni ripartita in due cd, dispersiva e caotica (ma che qualcosa di buono aveva tirato fuori), mentre "I'm with you" è stato un album sottotono, privo di spunti da tramandare ai posteri e forse il peggiore della loro intera carriera. Di certo, l'abbandono improvviso di John Frusciante (il chitarrista, poi rimpiazzato da Josh Klingenhoff) e quello calcolato di Rick Rubin (produttore di capolavori come "Californication" e "Blood sugar sex magik"), ebbero all'epoca la loro influenza negativa sulla riuscita del lavoro, che tuttavia non giustificava tanta apatìa e piattume.
Quindi, a distanza di 5 anni, pensare di cambiare rotta proponendo qualcosa di nuovo ed ormai un pò lontano dallo stile Peppers, non solo mi aveva fatto storcere un pò la bocca, ma aveva contribuito a farmi sentire ancora di più orfano di quei meravigliosi lavori che mi avevano fatto innamorare della band di Kiedis.
Per fortuna i nostri non hanno tenuto fede alle loro stesse parole, perchè "The getaway" è a tutti gli effetti un disco dei Red Hot Chili Peppers vecchia maniera, che ricalca gli schemi ben noti che li hanno resi famosi e li riallaccia quantomeno al discorso interrotto con "Stadium Arcadium", lavoro in cui erano state lasciate le ultime tracce significative di quel sound che li ha resi famosi in tutto il mondo.
Quando, il 5 maggio di un anno fa, "Dark necessities" fece capolino su youtube e nelle radio, ricordo di aver tirato un sospiro di sollievo:non era una sperimentazione priva di senso quella che stavo ascoltando, ma un piacevole ritorno alle sonorità tipiche dei peperoncini, che ai più potranno sembrare la solita minestra riscaldata, mentre in realtà è semplicemente il loro stile.
"Dark necessities" è un grande brano, per tanti motivi:prima di tutto è costruito interamente su strofe e ritornelli orecchiabili, e poi porta con sè una buona dose di spensierata malinconia; potrebbe sembrare un controsenso, eppure è proprio quella la sensazione che è riuscito a trasmettermi:vuoi per quelle chitarre su cui si appoggiano i rintocchi di pianoforte, vuoi per la voce cadente di Anthony Kiedis, "Dark necessities" ha sia i crismi per essere una canzone da suonare in uno springbreak californiano, sia la pacatezza per essere ascoltata placidamente d'estate in cuffia, nelle ore più calde sotto un ombrellone, in quella calma post-pranzo da spiaggia che è uno dei sogni ricorrenti degli amanti del mare durante l'inverno:
"...Spinning off, head is on my heart
It's like a bit of light and a touch of dark
You got sneak attacked from the zodiac
But I see your eyes spark
Keep the breeze and go
Blow by blow and go away
Oh, what do you say?
Yeah, you don't know my mind
You don't know my kind
Dark necessities are part of my design
Tell the world that I'm falling from the sky
Dark necessities are part of my design..."
Il basso sparato a cannone scandisce il ritmo e la caratterizza, facendola diventare un perfetto esempio di funk-rock, miscuglio di generi in cui i nostri sono maestri (avete presente "Can't stop"?).
"The getaway" non tradisce le promesse di "Dark necessities", che è un grande singolo d'apertura; l'abum si ascolta con piacere, gli episodi riusciti sono diversi e praticamente tutti portano i tratti distintivi dei Peppers. E' un album vacanziero, per questo sprecherò una manciata di raffronti con il tipico clima da spiaggia.
Prendiamo "Feasting on the flowers", per esempio:è compassata, rilassata, e la melodia si arrampica su una scala singhiozzata di chitarre e su cori sessantiani che ricordano le ballads dei Beach Boys;
diventa un pezzo da passeggiata in riva al mare, con i piedi appena bagnati dall'acqua fresca, le vacanze ancora tutte da vivere e finalmente un pò di pace dalla routine di tutti i giorni.
Un altro grande brano presente sul disco, è "We turn red", che si apre con una batteria possente (che con i primi 3 colpi ricorda quasi "Kashmere" dei Led Zeppelin), si sviluppa con la chitarra strozzata di Klingenhoff (sicuramente più integrato oggi nel sound del gruppo rispetto a quanto lo poteva essere 5 anni fa) e si libera in un ritornello acustico ed etereo, così delicato e zuccheroso che è un piacere per le orecchie.
Visto che ormai ho portato "The getaway" sulla spiaggia (elemento naturale di un gruppo californiano, i Red Hot saranno senz'altro contenti di questo accostamento), immaginiamo un bel bagno rinfrescante, sdraiati su di un lettino gonfiabile con l'acqua intorno che culla il corpo e lo spirito, mentre nelle cuffie suona "Sick love". Non sono ritmi scatenati, ma che producono sensazioni alla moviola, dove tutto procede volutamente a rilento, senza scadenze e senza orari di sorta; eppure c'è dietro sempre una vena malinconica rappresentata dal fatto che prima o poi tutto ciò deve pur finire, perchè la vita reale verrà sempre a reclamare il suo spazio. L'andatura di "Sick love" segue questo pensiero, con un ritornello solare e divertente abbinato a strofe un pò amare, ed uno splendido "bridge" che funge da passaggio necessario da una sensazione all'altra:
"...Say goodbye to Oz and everything you own
California dreamin' is a Pettibon
LA's screaming you're my home
Vanity is blasted but it's rarely fair
I could smell the Prozac in your pretty hair
Got a lot of friends, but is anyone there
I don't know but it's been said
Your heart is stronger than your head
And this location is my home
Stick 'n move you're living in a quick world
Got a heavy laugh for such a tiny girl
Born into it that's for sure..."
Il passaggio più delicato e melodico vede Elton John in veste di pianista ed ospite d'eccezione, e questo contribuisce a rendere "Sick love" uno dei pezzi più belli dell'intero album.
Ma il funky e l'energia che li ha sempre contraddistinti dov'è? direte voi. 
Beh, c'è anche quello:la title-track "The getaway" è un pezzo veloce, tirato e viscido, che ti si appiccica addosso come la sabbia quando, giocando a beach volley chiaramente tutto sudato, ti tuffi per recuperare la palla in extremis per evitare di lasciare il punto all'avversario. Con quella chitarra schizofrenica, che si piazza in sottofondo e non si ferma mai, trasmette un senso di ansia e di frenesia:non a caso è stato scelto come pezzo d'apertura dell'intero lavoro. Qui si sentono chiaramente reminiscenze di brani come "Around the world" e "By the way", ma in modo più soft e, generalmente, più melodico. Il pezzo è comunque un ottimo esempio di quanto i Red Hot abbiano saputo architettare nella loro trentennale carriera:shakerando punk, hip-hop e rock hanno creato un suono meticcio caratterizzato dalle influenze più disparate, originale ed inimitabile.
Ora:alzi la mano chi non ricorda "Roadtrippin" e quell'atmosfera incantata che fece di quel pezzo uno dei più belli dell'intero repertorio dei Red Hot; ebbene, "Encore" ne è l'esatta fotocopia, basata sulla stessa sfumatura vivida e profonda da clima californiano che il gruppo riesce a trasferire in note in modo eccellente. Il ritornello è trascinante, e l'aria leggera e solo apparentemente spensierata ben si accosta come accompagnamento ad un falò notturno fra amici, dove le espressioni dei visi vengono mostrate solo a tratti dai riflessi delle fiamme, delineando i tratti distintivi di ognuno senza mostrarli apertamente. Sembra che tutti i pensieri scorrano al rallentatore come la musica, che con il suo incedere trasognato e con la voce di Kiedis ti culla come il rumore delle onde del mare notturno ed invisibile:
"Later on I'll read to you the things that I've been needing to say goodbye
Walk away from mom and dad to find the love you never had, tell no lies
Carry on and write a song that says it all and shows it off 'fore you die
Take a little breath before you catch an early death there is so much sky...
"

Numerosi sono i riferimenti ad un'epoca andata, quella degli anni '50, che viene rimpianta come più spensierata, più divertente e meno oppressiva della realtà attuale. Si parla di Beatles, di astronauti, di Ed McMahon (vecchio presentatore televisivo americano), ed è un affresco appena abbozzato di quel periodo velato da una cortina di reale nostalgia. "Encore" è davvero un pezzo riuscitissimo, che ci restituisce davvero i Peppers più ispirati, e va ad incastonarsi alla perfezione in un album come questo, quasi interamente costruito su quelle malinconiche sensazioni che sono legate ai ricordi più belli della gioventù e dell'infanzia.
Quando la temperatura è caldissima, c'è sempre bisogno di una sosta al bar:"Detroit" è un bel pezzo rockettaro, piuttosto gasato e con degli apprezzabili cambi di ritmo, un pò come i diversi sapori di un cocktail energetico e dissetante; e come ogni cocktail che si rispetti che, se ben miscelato, riesce a nascondere al palato quell'ingrediente che proprio non ci piace, "Detroit" riesce a sopperire ad una generale mancanza di incisività con un andamento deciso ed incalzante. E' anche uno dei pochi pezzi veramente veloci in un disco dove la selezione che va a comporre la spina dorsale, nel suo insieme, è fatta di mid-tempo e lenti acustici e scarni.
Purtroppo però, nell'album c'è anche qualcosa che non è all'altezza di quanto detto fino ad ora. 
Per esempio, "Go robot" (scelta addirittura come secondo singolo...ma cosa gli è passato per la testa?) è un brano piuttosto brutto, noioso e completamente fuori dagli schemi della band, che gioca con sonorità alla Daft Punk tirando fuori un miscuglio che non ha nè arte nè parte. "This ticonderoga" invece vorrebbe fare il verso agli ormai lontanissimi esordi dei peperoncini (ricorda "Higher ground" a tratti, per dirne una) con quelle chitarre elettriche quasi punk, ripetitive e persistenti, che dovrebbero spingere la canzone come vele spiegate al vento:in realtà, di spinta ce n'è ben poca, e quelle vele non si aprono neanche per un attimo perchè il risultato è confuso ed impiastricciato; alla resa dei conti, suona come un omaggio a delle origini che ormai non gli appartengono più. 
Il pezzo di chiusura, "Dreams of a samurai" ha un'apertura pianistica meravigliosa, accompagnata da una carezzevole voce femminile; l'intro resta però la parte migliore, perchè quando attacca il tema principale la canzone perde tutta la sua enfasi; questo è dovuto in parte alla sua aritmicità, ed un pò per l'eccessiva vena psichedelica che a lungo andare è stucchevole e superflua.
Tutto ciò non intacca minimamente il giudizio complessivo di questo nuovo lavoro dei Red Hot, che resta più che positivo:perchè dimostra che i Peppers non si sono persi per strada, e sanno ancora tirare fuori delle canzoni di spessore; perchè cancella l'appannamento di "I'm with you"; e perchè di album veramente validi, come ho già detto a più riprese, ne escono ormai ben pochi e questo lo è senza ombra di dubbio.
Di certo,"The Getaway" rimane una spanna sotto al capolavoro del gruppo, che resta"Californication"; ma da quest'ultimo hanno saputo trarre le cose migliori e l'atmosfera globale, che è stata poi rielaborata in note con sapienza e maestria senza particolari stravolgimenti.
Alla fine, perchè i peperoncini avrebbero dovuto intaccare i propri tratti distintivi, correndo un rischio inutile e deleterio? Cosa devono ancora dimostrare?
A chi dice "eh, ma fanno sempre le stesse cose", io rispondo:quando prendi un disco dei Red Hot Chili Peppers, deve suonare come un disco dei Red Hot Chili Peppers, che diamine!
E così la vacanza giunge al termine, ed arriva sempre quel momento terribile in cui bisogna riporre le proprie cose in valigia per tornare alla vita reale di tutti i giorni:"The getaway" diventa così la cartolina ricordo di un'estate passata al mare, tra giochi, bevute con gli amici e sieste pomeridiane condite dal frinire delle cicale. Quell'estate che ti ha visto, per una volta, canticchiare "Dark necessities are part of my design" in luogo del solito "Dream of californication", mentre la mattina cammini, zainetto sulle spalle, per raggiungere la spiaggia. Un'estate come tante, ma con una nuova colonna sonora firmata, ancora una volta, dai Red Hot Chili Peppers.


VOTO:7/10
BEST TRACKS:"DARK NECESSITIES", "WE TURN RED", "ENCORE", "THE GETAWAY", "SICK LOVE"





sabato 1 aprile 2017

RECENSIONE:NOTHING BUT THIEVES - NOTHING BUT THIEVES + GRAVEYARD WHISTLING E.P. (2015)

NOTHING BUT THIEVES - 
NOTHING BUT THIEVES +
GRAVEYARD WHISTLING E.P. (2015)
LABEL : SONY MUSIC ENTERTAINMENT
FORMAT : CD DELUXE EDITION + 10'' SINGLE






Inutile che cerchi di ricordare come, circa un anno fa, mi ritrovai nelle cuffie il disco di esordio di questa band a me sconosciuta. Non ne ho idea, forse ne avevo sentito parlare da qualche parte, o qualcuno mi aveva segnalato il nome del gruppo:ma a questo punto, andare a ripescare le origini di tutto ciò non ha senso. Di certo, sono arrivato tardi rispetto ad altri che già avevano scoperto i Nothing But Thieves, e che li avevano apprezzati e classificati non solo come grande promessa, ma come autentici fenomeni.
Infatti, nel momento in cui presi il cd, Conor Mason (voce e leader), Joe Langridge-Brown e Dominic Craik (chitarre), Philip Blake (basso) e James Price (batteria) avevano già aperto i concerti di gente come Twenty-One Pilots,Awolnation e soprattutto Muse, e si apprestavano ad imbarcarsi in un mini-tour (chiamato "Ban all the music") già tutto esaurito in terra inglese.
Il loro biglietto da visita più prestigioso è stato proprio quello della band di Matthew Bellamy, che li ha voluti fortemente come gruppo di supporto per il loro tour europeo:sicuramente il leader dei Muse deve aver rivisto (e riascoltato) in Conor Mason una sua versione più giovane, riconoscendo in questi ragazzi diverse analogie con gli esordi della sua band, e le sonorità di capolavori del loro passato come "Origin of simmetry".
I riferimenti per inquadrare il gruppo non si fermano qui:potrei citare anche i Radiohead, per esempio, e snocciolarne almeno altri 3 o 4, ma andare a cercare per forza qualche similitudine con una serie di nomi buttati lì non renderebbe giustizia ai Nothing But Thieves:con la loro opera prima, hanno già delineato uno stile personale che chiaramente trae ispirazione da nomi già blasonati, ma senza esserne la copia. Il carisma del leader e la professionalità dimostrata dall'intero gruppo, nonostante siano giovanissimi (hanno tutti più o meno 25 anni), è già impressionante.
"Nothing but thieves" è il loro primo album completo, che raccoglie alcuni brani dei 3 E.P. pubblicati mentre erano in tour a farsi le ossa, con l'aggiunta di una serie di pezzi nuovi; ed è una ventata di freschezza ed energia per l'intero movimento rock, piuttosto stantìo negli ultimi tempi.
Il disco è come un treno ad alta velocità, che viaggia sparato e deciso portando l'ascoltatore a destinazione senza soste inutili.
Se non ci credete, concedetegli un'occasione e premete il tasto play del vostro lettore cd:ad accogliervi troverete subito una voce limpida, pulitissima, che arrampicandosi su diverse note intonerà "Excuse me". Potrebbe sembrare un inizio delicato, ed invece dopo appena un minuto arriva il ritornello travolgente, dove le chitarre elettriche e la voce di Mason interpuntata dai cori spazzeranno subito via ogni dubbio sulla qualità del disco che sta suonando; che piaccia o no, "Excuse me" è un'apertura che spacca di brutto, un grande pezzo da ascoltare e riascoltare fino allo sfinimento. 
E questo è solo l'antipasto, perchè le portate di questo banchetto servito a bordo del treno supersonico appena partito, sono diverse e quasi tutte di ottima fattura. La successiva "Ban all the music" (per l'appunto, già nota a chi aveva conosciuto la band in tempi non sospetti e apprezzata a tal punto dall'usarla come nome del loro tour), si apre con un giro chitarristico avvolto dalla batteria rimbombante, ed è supportata da quella varietà vocale di Mason che, qui sì, merita un accostamento a Bellamy per i picchi che riesce a toccare. La sensazione è quella di ascoltare un gruppo già navigato, e non degli esordienti:questo è indice di personalità e grande applicazione, perchè i ragazzi si trovano a meraviglia passaggio dopo passaggio, in un'alchimia di rara efficacia.
Il terzo brano, "Wake up call" è il colpo del k.o.inflitto già all'inizio del match, perchè la melodia ti entra nel corpo già dal primo ascolto, il ritmo è un macigno trascinante che lo scuote, e tu senza accorgertene la stai già canticchiando:
"These hearts are wireless
This ain't no crowd control
These thoughts are violent
They murder rock and roll
Slow down, fade out
That's not how I wanna go
Sometimes we never get started
No one will give you a wake-up call
Sometimes the hours are wasted
No one will give you a wake-up call..."
Una precisa dichiarazione di intenti, dove si invita la gente a non perdere tempo, ed a darsi una svegliata perchè la vita scorre e nessuno gli restituirà ciò che si è persa.
I testi non sono banali, ma trascinanti, sebbene non brillino di profondità e significato in alcuni frangenti; ma a livello compositivo il talento si vede e come, ed in alcuni pezzi viene fuori in modo evidente. "Wake up call" è più un inno da concerto, creato con l'intento di far muovere braccia e gambe al pubblico per scatenarlo e fare in modo che si lasci andare. 
I grandi album, si sa, se ti colpiscono poi vanno fino in fondo, e difficilmente mollano la presa:questo non è da meno, perchè dopo la partenza al fulmicotone del trittico d'apertura, cala un altro jolly dal nome "Itch", dove si intravedono le prime sfumature un pò fuori le righe, necessarie per evitare di essere troppo ripetitivi e standardizzati; ancora una volta l'energia che ne viene fuori è straripante, stavolta accompagnata da un pizzico di elettronica ben dosata (altro elemento comune con i Muse), che mai sovrasta il sound della band. Non posso dire che ci troviamo di fronte alla miglior canzone del disco e la metterei una spanna al di sotto delle proposte precedenti, ma siamo sempre su livelli altissimi, quindi alla fine è molto più che accettabile.
Di adrenalina ne è uscita fuori abbastanza a questo punto, ed una pausa di recupero per riordinare le idee dopo tanto stordimento arriva con "If I get high", delicata come una piuma che si va a posare sul viso; e signori, qui quella che inizialmente era solo l'impressione di trovarsi di fronte ad una grande voce diventa certezza:la parte finale offre un'interpretazione magistrale, che pochi vocalist possono permettersi; trasmette sofferenza e rabbia, è struggente e toccante. Pur partendo lento, il brano ha vita, ed è davvero un piacere ascoltarlo:sono 3 minuti di pura bellezza sonora.
A volte può essere un azzardo proporre due lenti in scaletta, uno dopo l'altro, eppure i Nothing But Thieves senza alcun timore rischiano, e porca miseria se alla fine non vincono loro; sommessa e con il suo sound ovattato, arriva un'altra perla, intitolata "Graveyard whistling" e introdotta da arpeggi acustici che salgono di strofa in strofa, fino ad esplodere con il secondo ritornello che incanta per la sua orecchiabilità, lasciandoti incollato alle cuffie con gli occhi sognanti. Ancora una volta, le tematiche della vita che comporta degli errori inevitabili, e di una gioventù sfuggevole sono il tema del messaggio; non credere in sè stessi e nell'abbattimento dei miti (religiosi e non, l'argomento viente trattato molto alla lontana lasciando libera l'interpretazione) può far male e portare all'autodistruzione:
"All that afterlife
I don't hold with it
All your gods are false
Just get used to it
Let's go out tonight
Kill some stubborn myths
Set those ghosts alight, get into it.
No one's getting younger
Would you like a souvenir?
Let it take you under,
Feel your worries disappear..."
A colpire in modo particolare è il sound, che giunge alle orecchie come se gli strumenti fossero soffocati, regalando un effetto di intimità; si crea un'atmosfera rilassata, tipica di un dialogo tra amici davanti ad un bicchiere di liquore, comodamente seduti in poltrona.
Ma nel frattempo il viaggio prosegue ed il treno non vuole proprio saperne di fermarsi, anzi continua imperterrito a macinare chilometri. Arriva "Hostage", altro grande passaggio dove il ritmo torna a dominare, e le sferzate di chitarre stavolta invertono l'ordine prestabilito di una canzone rock:è il refrain ad essere dolce, ed è come un rifugio che offre riparo mentre intorno (nei blocchi di strofe) imperversa la tempesta.
Il lettore cd deve arrivare alla traccia numero 8 per mettermi di fronte alla prima flessione qualitativa, e se ci pensate un attimo, ha quasi dell'incredibile, perchè gli album che riescono ad inanellare una sfilza di brani di questa portata si contano sulla punta delle dita. "Trip switch" non è niente di eccezionale, seppur piacevole e ben orchestrata; ad un'analisi attenta, non risulta neanche melensa, nè inascoltabile. Allora dov'è l'inghippo, direte voi? per dirlo in parole povere, è solo una canzone normale in un disco farcito di pezzi troppo validi per far sì che spicchi al cospetto degli altri. 
In genere, un buon album avrebbe già fatto la sua sporca figura, eppure sin dal primo ascolto ho avuto la netta sensazione che "Nothing but thieves" avrebbe inanellato almeno un altro colpo ad effetto, un qualcosa che lo avrebbe ulteriormente impreziosito, portandolo ad essere non solo un "buon" disco, ma un "ottimo" disco. E non mi sbagliavo.
"Lover, please stay" è un lento acustico, nudo e scarno, dove la voce di Conor Mason viene messa giustamente in risalto, ed è protagonista assoluta della scena:un pezzo davvero toccante, lineare ma efficacissimo, con un'interpretazione meravigliosamente sopra le righe. Come non si può non rimanere impietriti di fronte ad una melodia del genere? Riesce a commuovere e a far venire la pelle d'oca, a dimostrazione che a volte ci vuole davvero poco per regalare emozioni in musica:basta una chitarra, una melodia indovinata ed una buona voce (in questo caso più che buona, direi sublime, perchè capace di spaziare tra tonalità basse e alte con una semplicità disarmante). "Lover, please stay" è davvero uno dei brani più belli e affascinanti che abbia ascoltato negli ultimi anni, e non ho nessuna remora nel dirlo.
Il resto del disco, composto da "Drawing pins", "Painkiller" (nulla a che fare con l'album omonimo dei Judas Priest) e "Tempt you (Evocatio)" passa, a questo punto, quasi in secondo piano:non fa altro che confermare le qualità non comuni del lavoro in questione, con "Tempt you" che, oltre ad essere una degna chiusura, offre ulteriori spunti interessanti con la sua atmosfera carezzevole ma allo stesso tempo sofferta.
La deluxe edition regala altri 4 brani, sui quali spiccano "Honey Whiskey", dirompente per il suo ritornello a presa instantanea, e "Six billion":per molti dischi questi sarebbero pezzi di punta, persino degli highlights, mentre in questo album hanno trovato posto solo tra le bonus tracks. Questo è un chiaro indice della qualità di ciò che si ha avuto modo di ascoltare in precedenza:musica che, non mi stancherò mai di ripetere, è davvero di altissimo livello.
E così il primo viaggio a bordo del treno dei "Nothing But Thieves", che ha sfrecciato senza intoppi e senza passaggi a vuoto, giunge al termine. Ed è stato un viaggio bellissimo, carico di momenti da ricordare e da rivivere:per scrivere di questo disco ho dovuto ovviamente riascoltarlo tutto da cima a fondo, ed è stato un vero piacere scoprirlo ancora una volta.
Avrete notato come, nella foto abbinata a questa recensione, ci sia un vinile oltre al cd di cui ho parlato fino ad ora:è il 10'' di "Graveyard whistling", che con molta fatica sono andato a reperire su Ebay. 
Il motivo di questa affannosa ricerca è dovuto alla presenza di un brano non presente nella scaletta del cd, che mi ha fulminato al primo ascolto; si chiama "Last orders", e si può scaricare in digitale sia su Itunes che sul sito del gruppo. Se lo si vuole su un supporto fisico, al momento l'unico che può offrirlo è questo E.P. di 4 tracce che include anche "Graveyard", "Itch" ed "Emergency" (altro inedito). "Last orders" è un'altra dolcissima ballata, più elaborata di "Lover, please stay", dal significato crudo e diretto:una lite da bar che finisce in tragedia solo in apparenza, con il protagonista colpito da uno sparo e lasciato a terra, mentre il pensiero che tutto sia sfuggito dal suo controllo (senza spiegarne le ragioni) è motivo ricorrente dei suoi ultimi pensieri:
"The gun was hot
Crazy kind of rage within his eyes
Taking over
The cops were called
Someone put some water on my face
And I passed out
I thought I was dreaming, there were sirens screaming
And my friends were leaving me to die
But it wasn't heaven, just for 27
And we'll do it all again tonight
Take your fight outside
(We've got this thing under control)
That's it for tonight
(We've got this thing under control)..."
La frase "We'll do it all again tonight" lascia intendere che tutto sia avvenuto come in un sogno, e che il protagonista non sia passato a miglior vita ma sia stato poi salvato da una fine tanto indecorosa.
Grazie al suggerimento di un'amica, ho notato anche  l'evidente riferimento al "club 27" (espressione con cui molti definiscono quell'insieme ristretto di autentici miti del rock dannati, morti tutti a 27 anni), di cui Mason nella canzone ancora non può far parte (è più giovane) e in cui si spera non entri in futuro.
Il testo di per sè trasmette un pò di angoscia, ma ancora una volta è la musica e la voce di Mason ad avermi lasciato imbambolato, con i cori ben congeniati a supportarla fino alla splendida chiusura:un'altra prova da incorniciare, che ho ascoltato decine di volte e di cui ancora non mi sono stancato. Peccato, davvero, che non sia stata inclusa nella selezione finale del disco.
Si sentirà parlare ancora dei Nothing But Thieves, ne sono certo:se le premesse sono queste, il futuro per loro è roseo, e prevedo una carriera simile a quella dei loro maestri, i Muse.
Non vedo l'ora che diano alle stampe il seguito di questo esordio, e ormai dovremmo esserci vicini visto che sono passati quasi due anni. Quel giorno, non avrò bisogno di un assaggio o di un ascolto di prova prima di fiondarmi nel primo negozio di dischi a tiro; andrò lì con lo scopo di prenotare un nuovo biglietto per salire a bordo di un altro treno che, quasi certamente, mi farà vedere gli stessi meravigliosi paesaggi di questo viaggio, ma da un'altra angolazione, rendendoli ancora più interessanti. E se, come in questo caso, non ci saranno contrattempi, sarà solo un ulteriore conferma dei miei fortissimi sospetti:i "Nothing But Thieves"sono davvero una grande, grande scoperta.
(R.D.B.)


VOTO : 8,5/10
BEST TRACKS : "EXCUSE ME", "WAKE UP CALL", "LOVER, PLEASE STAY", "HOSTAGE", "GRAVEYARD WHISTLING", "HONEY WHISKEY", "LAST ORDERS" (Solo su "GRAVEYARD WHISTLING" E.P.)