venerdì 30 giugno 2017

PLAYLIST:THE CURE #2 (UNDERRATED TREASURES)

PLAYLIST:THE CURE #2 
(UNDERRATED TREASURES)


E rieccoci qui, per l'appendice necessaria alla prima selezione di brani dei Cure. Le motivazioni per cui ho scelto di fare una doppia scaletta le ho già ampiamente illustrate sul post precedente; quindi, poche chiacchiere, e andiamo a scoprire queste canzoni bellissime, ma di cui molta, troppa gente ne ignora l'esistenza.

1 - MORE THAN THIS (1998)
Scritta appositamente per il primo lungometraggio cinematografico di X-Files, "More than this" ha dei chiari accenni al sovrannaturale e alla fantascienza, anche se in realtà è un brano interpretabile, perchè gioca su un'ambivalenza tra canzone d'amore e pezzo strettamente dedicato al film. Il passaggio in cui Robert Smith canta "On your lips lies a secret, the promise of a kiss or something more than this?" è una chiara aspettativa sentimentale (o forse fa riferimento al fantomatico bacio sospirato per anni tra Moulder e Scully?), mentre tutto nelle strofe gioca sul doppio senso tra l'ignoto e un qualcosa di irraggiungibile ("Another second of my life not knowing if it's true...Make-believe in nothing, it's all I want of you..."). Uno Smith criptico come sempre, insomma, ma qui oltre al testo - davvero ben strutturato - ancora una volta è la musica a fare la differenza:ricorda per certi versi "Lullaby", con il suo ritmo compassato e iperprodotto, le tastiere che saturano le casse ed un pizzico di elettronica che i Cure già avevano iniziato a sperimentare sul finire degli anni 80. Il brano si può recuperare anche nel cofanetto "Join the dots", composto da 4 cd che contengono canzoni inedite, b-sides e versioni rare di pezzi più famosi; questo box è un'autentica miniera d'oro, perchè raccoglie oltre a "Burn" (di cui ho parlato prima, tratta da "The Crow") anche un altro brano di cui parlerò tra poco ("Breathe") ed un'altra perla incisa per il film di Judge Dredd, intitolata "Dredd song", che per ragioni numeriche non ha trovato spazio in questa scaletta.


2 - KYOTO SONG (1984)
Ok, lo ammetto:"Kyoto song" l'ho scoperta da poco (eppure ha 33 anni questa canzone, accidenti!) ed è anche uno dei motivi per cui, alla fine, ho dedicato due playlist ai Cure; sono questi, i tesori nascosti a cui accennavo prima:canzoni secondarie che raramente vengono proposte dal vivo e quasi mai passate per radio. E che dire? La linearità e la semplicità sulla quale è improntata la struttura melodica di questa canzone mi ha colpito quasi immediatamente, lasciandomi anche un grosso dubbio:anni fa io avevo ascoltato "The head on the door" e non mi era piaciuto; possibile che mi sia sfuggita? Non mi soffermerò più di tanto sull'album quindi, che conosco poco (prometto di coprire questa lacuna a breve) ma che so essere una naturale prosecuzione del periodo più dark del gruppo; "Kyoto song" è solo apparentemente un brano leggero e disimpegnato, perchè se lo si analizza a fondo, ci si può ritrovare la consueta oniricità, con il testo oscuro ed inquietante sin dalle prime battute:"A nightmare of you of death in the pool wakes me up at quarter to three...I'm lying on the floor of the night before with a stranger lying next to me...". Tutto ciò, come detto, va in contrasto con la musica, ma è come se le donasse una nuova chiave di lettura:è, insomma, un tipico esempio di come sentendo attentamente una canzone, si possa averne una percezione completamente diversa rispetto ad un ascolto poco incline all'analisi del testo; e così, quello che può sembrare un brano innocuo, con un giro di tastiere quasi allegro e spensierato, può in realtà suonare sinistro e agghiacciante. Non mi perdonerò tanto facilmente di aver trascurato questa canzone per così tanto tempo, ma da oggi in poi, guai a chi prova a togliermela dallo stereo!


3 - LAST DANCE (1989)
Eh già, ecco qui un altro pezzo tratto dal mio amatissimo "Disintegration". Non potevo proprio farne a meno, perchè "Last dance" è un episodio così introspettivo, così carico di tastiere evocative, che riesce a creare un'atmosfera crepuscolare che volge alla notte più buia. Introdotta da una chitarra acustica "a cascata" e da una batteria aritmica, il brano si sviluppa in tutta la sua emaciata e livida struttura, fino all'arrivo del cantato di Robert Smith, sofferto ed implorante:l'incipit "I'm so glad you came I'm so glad you remembered to see how we're ending our last dance together..." è già struggente di per sè, e lascia intendere dove ci porterà la narrazione; il testo è un'autentica poesia che in alcuni passaggi risulta essere davvero commovente ("But Christmas falls late now flatter and colder and never as bright as when we used to fall, all this in an instant before I can kiss you, A woman now standing were once there was only a girl..."), perchè parla degli ultimi attimi passati in compagnìa di una donna amata per anni che si sta spegnendo, e dal testo si evince che quelle che la vita sta separando, potrebbero essere due persone anziane ("C'è adesso una donna dove prima c'era una ragazza"..."Natale arriverà tardi quest'anno [..] non sarà luminoso come quelli che usavamo passare").  Difficilmente ho trovato tanta intensità in una canzone:la prima volta che la ascoltai, rimasi così incantato da dover staccare tutto e concedermi poi 10 minuti di silenzio per poterla assimilare. Ricordo anche che successivamente corsi a leggermi il testo sul libretto del cd, che ovviamente non fece altro che aumentare quel magone che pian piano mi stava assalendo. E quando una canzone ti tocca in modo così profondo e intimo, beh...rimarrà per sempre nelle tue corde. Tutti prima o poi ci troveremo ad affrontare un distacco del genere; mi piace pensare che "Last dance", un giorno, mi possa essere di conforto, in qualche modo. Perchè sarà come un "amico" che mi guarderà dentro, raccontando in musica la mia stessa tristezza, il mio stesso sconforto.
                                                                                                        

4 - BREATHE (1987)
E qui "Join the dots" è stato davvero prezioso:perchè senza quel box, credo sarebbe stato quasi impossibile avere questa canzone rimasterizzata in digitale (almeno al momento della sua uscita); "Breathe" è infatti la B-side del singolo "Catch" (tratto da "Kiss me Kiss me Kiss me") che uscì all'epoca solo in vinile 12'' e 45 giri, ed è un brano quasi interamente strumentale - chiaramente un demo, non so dire quanto incompiuto o quanto voluto così - interamente suonato con un organo accompagnato da una tastiera che sembra quasi una marcia funebre. Robert Smith canta solo il ritornello: "Breathe,breathe on me, Be like you used to be, breathe on me", ed è un'altra prova di rara intensità, tanto semplice quanto profonda e ricercata. Mettete da parte le convenzioni strutturali di una canzone, sedetevi su una sedia o poltrona che sia, davanti ad una finestra con degli alberi, ed ascoltatela. E' uno dei modi (poi ognuno ha il suo, sia ben chiaro) per poter apprezzare in pieno lo splendore di certe opere, che trascendono i generi, gli stili e i canoni che troppo spesso soffocano le emozioni ed indirizzano i nostri giudizi.



5 - TREASURE (1996)
Quest'ultima canzone ha vinto il ballotaggio in extremis con "Dredd song". Ci è riuscita perchè l'ho scoperta il giorno di Natale di 20 anni fa (giorno in cui, se ricordo bene, l'avrò ascoltata una decina di volte), e da lì in poi mi sono trovato spesso a ripescarla con piacere ogni volta che giro intorno a qualche disco dei Cure. E' una canzone abbastanza semplice, e neanche tanto elaborata, ma triste. Molto triste. Parla di una storia appena finita, e descrive alla perfezione quella che per il sottoscritto è una sacrosanta verità: "Remember I loved only you, remember me and smile...For it's better to forget than to remember me and cry.". Già, proprio così, ricorda con il sorriso, oppure è meglio dimenticare che ricordare e piangere. Molti potrebbero non trovarsi d'accordo con un'affermazione del genere, ma io mi ci rispecchio alla perfezione.
"Treasure" è l'unico brano dell'abum "Wild mood swings" ad avere una chiara impronta dei Cure più malinconici ed introspettivi, perchè per il resto è a tratti un disco bizzarro, giocoso ed un pò fuori dal loro classico stile.  


Chiudo qui, ora i brani selezionati sono10. Soddisfatto? In parte, direi di sì; meglio non pensarci troppo, perchè già mentre sto scrivendo questa coda finale, mi è tornato in mente un altro brano che ahimè non ho inserito (ve lo dico? certo che ve lo dico:"The loudest sound"). E' evidente come i Cure siano una delle mie band preferite, e non averli mai visti dal vivo è un'altra di quelle annose lacune a cui spero presto di rimediare. Ma mi viene da ridere:perchè per ora me la sono cavata, ma sto già pensando alle playlist future che dovrò stilare prossimamente, e non avete idea di quanti altri artisti mi metteranno in difficoltà con post del genere.
Nel frattempo, si è fatta notte, e tra un pò dovrò pur mettermi al letto; prima di coricarmi, mi accerterò che non ci sia l'uomo-ragno affamato a tessere la sua tela nei pressi del mio letto...non si sa mai. Robert Smith insegna.

PLAYLIST:THE CURE #1

PLAYLIST:THE CURE  #1


Non è stato facile stilare una brevissima playlist su un gruppo storico come i Cure, che hanno qualcosa come 40 anni di carriera alle spalle e che nel bene o nel male ha fatto non solo la storia del pop, ma anche della new-wave e di quel movimento post-punk nato sul finire degli anni '70. 
A prescindere, non è mai semplice imbarcarsi in un lavoraccio di questo tipo, sia che si tratti di organizzare una selezione su un unico artista/band, sia che si scelga di improntare la scelta su un genere a sè stante. Fatto sta che mi sono armato di carta e penna, e dopo diverso tempo e svariati ripensamenti, sono arrivato ad una conclusione:non ce l'avrei proprio fatta a scegliere solo 5 canzoni nel loro repertorio da suggerire per una eventuale playlist. E da qui è nata l'idea di raddoppiare la scelta, e separare i grandi classici dalle canzoni meno conosciute; questo perchè i Cure, sin dall'album d'esordio ("Three imaginary boys" del 1979) fino all'ultimo disco da studio ("4:13 dream" del 2008) hanno disseminato, qui e lì, degli autentici capolavori che certamente i fans riconosceranno già dalla prima nota, ma che non hanno avuto enormi riscontri di pubblico, vuoi perchè non accompagnati da un video o lanciati come singolo in radio, vuoi per la loro complessità sonora che spesso non fa rima con "commerciabilità del prodotto". Entrando nello specifico, e bypassando inutili discorsi storici ed analisi che eventualmente affronterò in una recensione approfondita di uno dei loro lavori, ecco qui le mie 5 canzoni che porterei su quella stereotipata isola deserta in cui ogni tanto ci si immagina di dover finire. Quelle insomma, di cui io non farei a meno, e che un qualsiasi lettore di musica in mio possesso deve e dovrà contenere in modo imprescindibile. Sono brani, questi, che abbracciano quasi tutti il periodo anni '80 del gruppo, tinteggiato da un alone dark che solo in alcuni passaggi diventa più pop e che hanno segnato in qualche modo la mia vita ed i miei gusti musicali. 
Già da questa ardua scrematura emerge chiaramente quale, per il sottoscritto, sia poi l'album di riferimento, il capolavoro di Robert Smith e soci ("Disintegration" del 1989), ma vi svelo un segreto:non lasciatevi ingannare dalla posizione in cui ho piazzato in questa playlist determinati brani, e non fatevi sviare da quello che ho appena suggerito; non vi ho detto una bugia, è senza dubbio "Disintegration" l'album che amo di più dei Cure, ma questo non vuol dire che contenga la mia canzone preferita. Volete scoprire qual'è? Non ci resta che addentrarci nel mondo malinconico e crepuscolare dell'uomo ragno che tesse ragnatele in fondo al nostro letto...



1 - LULLABY (1989)
Chi non conosce questa canzone? Non ha certo bisogno di presentazioni, visto che è la hit più famosa del gruppo inglese.
Costruita interamente su un tappeto meraviglioso di tastiere che si inseguono in un incedere continuo e sempre più invadente, "Lullaby" ha un'andatura da mid-tempo, quasi caracollante, sulla quale si dipana la voce sussurata ed a tratti inquietante di Robert Smith. Il testo, visionario, è un incubo metaforico dove il protagonista è bloccato in un letto mentre un fantomatico uomo-ragno si appresta ad averlo per cena ("...And there is nothing I can do when I realize with fright that the spiderman is having me for dinner tonight..."). L'unica speranza è l'arrivo del giorno, che però non è sinonimo di salvezza certa, visto che questo "mostro" è sempre affamato ("And I know that in the morning, I will wake up in the shivering cold. And the spiderman is always hungry...").
E' una rappresentazione a tinte fosche dei nostri incubi infantili, la paura del buio, il terrore dell'uomo nero, dei rumori e di quegli scricchiolìi sinistri che si sentono in ogni casa quando si spegne la luce. E' anche naturale interpretarlo in mille altri modi diversi, su tutti il timore dell'ignoto e dell'oscurità che ogni individuo si porta dentro, ma sinceramente non ci vedo chissà quale messaggio nascosto:è un puro racconto horror in musica, gotico ed oscuro, che è ben rappresentato dall'arcinoto video che ha accompagnato l'uscita del singolo. Il brano, contenuto in "Disintegration", è davvero una sublime opera pop unica nel suo genere, che ben si presterebbe persino ad essere suonata da un'orchestra. La tessitura musicale ha una struttura proprio simile ad una ragnatela, tanto è complessa e satura. Una ragnatela subdola, perchè può facilmente intrappolare l'ascoltatore e paralizzarlo, per agevolare il pasto serale dell'uomo-ragno...


2 - BURN (1993)
Ricordo ancora la prima volta che ascoltai questo pezzo:rimasi fulminato, e fu amore al primo ascolto. Era contenuto in un trailer del film per cui è stata scritta, "Il Corvo", che tragicamente ha portato alla morte del protagonista Brandon Lee (ma questa è un'altra storia). Voluta fortemente sia dal regista Alex Projas che dal creatore del fumetto James O'Barr (il cui protagonista è chiaramente ispirato anche a Robert Smith), la partecipazione dei Cure alla colonna sonora ha fruttato uno dei più bei pezzi rock-gotici mai scritti; il tappeto batteristico è incisivo ed il giro di chitarre avvolgente, mentre il testo è un quadro appena accennato ma vividissimo e realistico della storia narrata da O'Barr, secondo la quale una coppia in procinto di sposarsi viene uccisa barbaramente da una gang, e un corvo (che è il tramite tra il regno dei vivi e quello dei morti) ad un anno di distanza permette all'uomo di resuscitare per mettere a posto le cose e vendicarsi dei loro assassini. Sin dalle prime battute ("Don't look don't look the shadows breathe whispering me away from you...") si intuisce la vena triste e melanconica della canzone, che però spira rabbia e decisione man mano che il tono sale fino al ritornello, interpretato in modo sublime ("But every night I burn, every night I call your name. Every night I burn,every night I fall again").  In questa canzone c'è tutto: amore,vendetta, ossessione, impotenza, inquietudine. E' un cumulo di emozioni che possono rivivere dentro l'ascoltatore sotto altri mille aspetti, e nonostante la sua durata (che sfiora i 7 minuti), è uno di quei pezzi che sembra finire troppo presto per quanto è bello e vigoroso. Non nascondo un pochino di indecisione, ma è questa quella che io definirei la migliore prova dei Cure di sempre. Per le sue mille sfaccettature; perchè è legata ad uno dei miei film preferiti (se non il preferito in assoluto); perchè è in pieno stile Cure; e perchè sì, non lo nego, a distanza di...quanto? 25 anni dalla sua uscita (porca vacca quanto tempo è passato!!), io non sono ancora stanco di riascoltarla.


3 - CHARLOTTE SOMETIMES (1981)
"Charlotte sometimes" è un affresco di musica gotica, diafana e decadente. Stavo per inserirlo nella seconda scaletta (quella dei brani meno conosciuti) anche perchè non è presente su nessun disco dei Cure (fatta eccezione per la raccolta "Staring at the sea") ed è un singolo a sè stante. Però poi ho realizzato che non potrei, davvero, fare a meno neanche di questa. Perchè è un autentico concentrato di malinconia in note, dal suono metallico e per questo distante, in alcuni passaggi davvero inquietante, come se la voce di Smith arrivasse direttamente da un incubo. Accompagnata da splendidi controcanti, "Charlotte sometimes" è lancinante e lugubre, costruita su accordi tanto semplici quanto efficaci, ed è ispirata da un racconto per bambini del 1969 di Penelope Farmer dal medesimo titolo. E' la storia,ambientata verso la fine degli anni ’60, di una giovane ragazza che per una sorta di magia, si trova proiettata in una diversa realtà, nel lontano 1918, anno nel quale lei non è più se stessa ma una certa Clare Croft. E così Clare "incontra" Charlotte, creando una sorta di due personalità diverse in epoche diverse, chiara similitudine con i doppi lati del nostro carattere (ognuno ne ha). Rappresenta la famosa teoria del doppio, trattata in tanti romanzi e film (avete presente "Il cigno nero"? o il più recente "The neon demon"?). E così, il testo è un susseguirsi di descrizioni appena accennate ed in contrapposizione, dove i volti della gente cambiano ("All the faces all the voices blur - Change to one face change to one voice"), e dove nell'ora in cui ci si prepara per andare a dormire una luce sembra apparire sul muro in tutto il suo chiarore ("Prepare yourself for bed, the light seems bright and glares on white walls..."). Clare sente dentro sè stessa la presenza di Charlotte, ricorda altri tempi ed altre scene di vita, e a volte, sì, lei E' veramente Charlotte anche se solo in sogno ("Sometimes I'm dreaming where all the other people dance...Sometimes I'm dreaming Charlotte sometimes..."). Al di là dell'inquietudine derivante dal tema trattato, e riproposto in musica con classe e genialità dai Cure, raramente ci si trova ad ascoltare canzoni che oltre ad essere davvero belle ed orecchiabili, sono anche opere d'arte che raccontano una storia per immagini, proprio come in un dipinto. "Charlotte sometimes" lo è a tutti gli effetti, e le parole di Robert Smith sono i tratti di pennello che illustrano il racconto in modo criptico e appena intuibile, lasciando libera interpretazione al suo affresco.


4 - LOVESONG (1989)
"Lovesong" è un altro classico tratto da "Disintegration", ed è sicuramente il pezzo più vicino al pop tra quelli che ho scelto. Questo però non è un difetto, perchè i Cure si erano già spinti verso territori più commerciali in passato ("Close to me" e "The lovecats" ne sono due esempi). Qui però, riescono ad alzare il tiro, riuscendo nell'intento di abbinare l'atmosfera lugubre e piuttosto cupa dell'album con un qualcosa di vagamente più radiofonico ed accessibile (cosa che fa emergere "Lovesong" sia di fronte alle già citate proposte commerciali della band, sia su quelle che lanceranno qualche anno più tardi, su tutte la spavalda ed eccessivamente euforica "Friday I'm in love"). 
Ad un'analisi più attenta, infatti, nonostante la tematica sia abbastanza scontata (lo dice il titolo, è una vera e propria dedica d'amore, scritta da Smith come "regalo di nozze" per la moglie), "Lovesong" mantiene le tetre sonorità dei lavori più oscuri del gruppo (la meravigliosa tastiera simil-organo che accompagna sin dall'apertura le strofe ne è un chiaro esempio), concedendo un minimo di apertura solo nel ritornello. E così, Robert racconta di come si senta a casa, più vivo e più giovane accanto alla sua amata ("Whenever I'm alone with you, you make me feel like I am home again..."), e nonostante spesso sia costretto alla lontananza (le ragioni sono ovvie, i tour, la promozione dei dischi e quant'altro), egli la rassicura dicendole che la amerà comunque per sempre ("However far away I will always love you. However long I stay I will always love you..."). 
L'atmosfera complessiva ha un non so che di dimesso, di tenebroso, la voce è quasi distante ed indolente; eppure regala un effetto spettrale all'insieme, che funziona alla grande. Le chitarre impreziosiscono l'arrangiamento prevalentemente tastieristico, dove ancora una volta le note si inseguono e si concatenano creando un background sonoro davvero eccellente che rende il brano un perfetto ibrido fra rock malinconico, pop elettronico e new-wave.


5 - ONE MORE TIME (1987)
Ecco un altro pezzo che avrebbe potuto finire nella seconda playlist e che invece all'ultimo ho inserito qui. Poco conosciuto ai più, questo lento meraviglioso dalla lunga apertura strumentale è un vero e proprio manifesto d'amore interpretato in modo intenso e struggente, un autentico piacere per le orecchie (ed una pugnalata al cuore, tutte le volte che si arriva al punto in cui Smith canta "Take me in your arms tonight...Take me in your arms just one more time..."). Tratta da "Kiss me Kiss me Kiss me", sembra piazzata lì quasi per caso - il disco è un coacervo di sonorità punk, rock, psichedeliche e persino funk - e forse proprio per questo ha più "presa" in quel contesto, al momento dell'ascolto; non è quindi un pezzo scontato, e nemmeno commerciale, però è senz'altro uno dei brani più romantici e commoventi dell'intera discografia dei Cure. La chitarra acustica abbinata all'onnipresente tappeto di tastiere crea un insieme atmosferico,rarefatto e molto intimo, tipico anche delle produzioni a venire del gruppo (la successiva "Last dance" del solito "Disintegration" e la più recente "The loudest sound" pubblicata su "Bloodflowers", sono dirette discendenti di questo splendore). Per chi conosce solo i grandi successi dei Cure, questo è uno di quei pezzi da andare a recuperare immediatamente.


Come immaginavo, oltre alle cento cose che avrò dimenticato di dire su questi brani, percepisco chiaramente l'incompletezza di una selezione del genere. E quindi, questa playlist deve per forza essere implementata dalla seconda, che ho voluto intitolare "Underrated treasures" ("Tesori sottovalutati"); Forse, dopo aver snocciolato altre 5 perle della sconfinata discografia della band di Robert Smith, questo senso di "incompiuto" avrà trovato la sua "cura", e sarà più sopportabile.

(R.D.B.)

mercoledì 14 giugno 2017

RECENSIONE:MARILYN MANSON - THE PALE EMPEROR (2015)

MARILYN MANSON - 
THE PALE EMPEROR (2015)
LABEL : HELL ETC./COOKING VINYL
FORMAT : LIMITED EDITION 2 x PALE WHITE VINYLS







Manca ormai veramente poco al ritorno sulle scene di Marilyn Manson, uno dei personaggi più inquietanti, discussi e poliedrici degli ultimi anni; e allora, mi sono detto, tanto vale sbrigarsi a parlare di "The pale emperor" prima che la mia attenzione venga assorbita dalla nuova opera della band capitanata dall'artista il cui vero nome è Brian Warner.
Perchè soffermarmi su quest'ultimo lavoro e non su un classico come "Mechanical animals" o "Holy-Wood", o "Anti-Christ superstar"? Prima di tutto, sarebbe stato troppo semplice assegnare un voto (positivo) a quegli album, che nel bene o nel male hanno fatto la storia dell'hard-rock in salsa gotica; Inoltre, "The pale emperor" ha avuto un impatto decisivo nella carriera di Manson:è il secondo disco autoprodotto e solo distribuito da una major (neanche tanto famosa), quindi diciamo di nicchia, ed esce a tre anni di distanza dal precedente "Born villain" che non era affatto un disco da tramandare ai posteri. Anzi, era piuttosto palloso e anonimo, ed è inutile sottolineare come un secondo passo falso consecutivo avrebbe potuto nuocere alla carriera del reverendo.
E quindi, con una posta piuttosto alta in palio, cosa fa Marilyn Manson? rischia. Perchè lui è andato sempre controcorrente, perchè se ne è sempre sbattuto  delle chiacchiere e delle critiche, e perchè (furbo) ha sempre saputo che il suo zoccolo duro di fans non lo avrebbe comunque tradito.
Rischia, quindi, e vince alla grande con un album lontano dagli esordi sfrenati e trash, meno rockettaro e punk, meno pesante e più ascoltabile, vagamente pop ma tremendamente decadente e sinistro. E così facendo torna a catalizzare l'attenzione su di sè inanellando una serie di brani validi come non se ne trovavano da almeno un decennio nelle sue produzioni. Infatti "The golden age of grotesque" del 2003, "Eat me drink me" del 2007, "The high end of low" del 2009 e il già citato "Born villain" del 2012, avevano tutti un comune denominatore:1 o 2 brani  notevoli (quasi sempre i singoli estratti) e poi il nulla o quasi. "The pale emperor" è invece, finalmente, un album completo, carico e bello davvero dall'inizio alla fine. 
Prendiamo l'opening "Killing strangers", che non a caso è stata piazzata come incipit dell'opera:è un'apertura malata e inquietante, con una chitarra country supportata dall'incedere lento  e prepotente della batteria; un pachiderma al rallentatore che aggredisce le casse creando un'atmosfera disturbata che (si scoprirà andando avanti canzone dopo canzone) pervaderà poi tutto il disco. 
Per il rock scatenato nel tipico stile del Reverendo, bisogna aspettare l'attacco del secondo brano in scaletta, "Deep six":già dai primi secondi si capisce che la produzione del disco è superlativa, il sound cristallino e pulito con tutti gli strumenti bilanciati, sui quali domina la caratteristica e inimitabile voce di Manson; "Deep six" ricorda molto da vicino episodi precedenti della discografia mansoniana, su tutti "Rock is dead" e "Astonishing panorama of the endtimes"; è quasi un omaggio a quei successi, ma è in questo contesto che l'androgino artista si ritrova a meraviglia, perchè è il suo terreno abituale:
"You wanna know what Zeus said to Narcissus
You'd betta watch yourself
You wanna know what Zeus said to Narcissus
You'd better watch yourself
You'd better watch yourself

It's like a stranger had a key, 
Came inside of my mind
And moved all my things around
He didn't know snakes can hear the prey
Can't try to break the psyche down...
"
Il testo è chiaramente un'autoaccusa su un periodo di confusione (musicale) che Manson deve aver attraversato, non per sua colpa; quando dice "è come se qualcuno avesse trovato la chiave per entrare nella mia mente e spostare tutte le cose che ha trovato", i "serpenti" nella sua mente - croce e delizia del personaggio - lo hanno sbattuto fuori senza permettergli tale profanazione. La citazione di Zeus che disse a Narciso "guardati da te stesso" può essere un richiamo voluto alla libertà di espressione che lui si è ritagliato a fatica nel tempo:abbattendo numerose barriere linguistiche e culturali, creando un soggetto poco morale e assai discutibile, sempre estremo e dissacrante, ha sì abbattuto determinati dogmi, ma ha rischiato di perdere l'essenza stessa del suo essere anticonformista concedendosi forse troppo al volere dei media, che tendono a pilotare le scelte artistiche o in qualche modo ad influenzarle. In un contesto del genere, solo tu puoi essere il nemico di te stesso:con "Deep six" Manson sembra aver messo a fuoco la deviazione di percorso che lo aveva relegato ai margini della musica mainstream con i lavori precedenti, e si riappropria dell'anima del personaggio creato anni fa, in una versione ripulita e solo in apparenza più ordinaria.
La decadente "Third day of a seventh binge" è un mid-tempo accompagnato da schitarrate da antologia, tanto semplici quanto efficaci, che ricordano chiaramente lo stile degli Smashing Punpkins (non a caso il Reverendo ha voluto Billy Corgan al suo fianco per suonarla dal vivo nel 2015 al Camden Palace Theatre di Londra); il ritornello è costruito su un mugugno prolungato ed incisivo, che si unisce alla musica diventando esso stesso strumento al pari di una tastiera. Dato in pasto ai fans e alle radio un mese prima dell'uscita del disco, "Third day" è probabilmente uno dei pezzi più belli dell'intero disco, e senza dubbio quello dal più forte appeal commerciale; segue a ruota "The mephistopheles of Los Angeles", altro passaggio riuscitissimo, con chitarre distorte e sfumate in un eco che offre all'insieme una sfumatura nebbiosa e decadente. Il testo è ancora una volta introspettivo, narra di come egli si senta solo come un eretico, cita Lazzaro e lascia intendere i suoi dubbi sulla possibilità di aprirsi "visto che sono già stato aperto abbastanza":
"I don't know if I can open up
I've been opened enough
I don't know if I can open up
I'm not a birthday present
I'm aggressive regressive
The past is over
And passive scenes so pathetic
I was fated, faithful, fatal
I was fated, faithful, fatal
I feel sole and alone like a heretic
Ready to meet my maker
I feel sole and alone like a heretic
I'm ready to meet my maker
Lazarus has got no dirt on me
Lazarus has got no dirt on me
And I'll rise every danger
I'm the Mephistopheles of Los Angeles
Of Los Angeles...
"
E' chiaro come il Reverendo si sia veramente sentito braccato e manovrato; nonostante ciò, si definisce un predestinato, letale e nefasto, addirittura "aggressivo-regressivo"; e con tale irriverenza arriva ad accostarsi a Lazzaro per essere tornato e autoproclamarsi il mefistofele di Los Angeles.
"Warship my wreck" è un pezzo piuttosto elaborato e complesso, meno digeribile degli altri. Lavorato molto sulle tastiere, esplode con una scarica elettrica di basso e chitarre per chiudere con dei cupi e minacciosi rintocchi di piano (o tastiere) prima di lasciare spazio all'ennesima frustata di energia. 
Il brano si chiude definitivamente con un cantato quasi a cappella, e richiede numerosi ascolti per essere assimilato; vale comunque la pena perderci tempo per poi apprezzarlo appieno.
"Slaves only dream to be king", invece, non è niente di che:per carità, è stile Manson in tutto e per tutto, ma nella sua versione più confusionaria ed alternativa che a me non fa impazzire. Un pò di sperimentazione è comunque apprezzabile, e credo che con questa proposta il Reverendo abbia cercato di trovare un sound con soluzioni più innovative:la melodia è anche ben costruita e il ritmo a tratti incalzante, ma non è quel tipo di brano che andrei a riascoltare una volta messo il disco sul piatto. Semmai, questo lo farei molto volentieri per la successiva "The devil beneath my feet" perchè è un pò il riepilogo di quel che è questo "Pale Emperor", dove la potenza della batteria e dell'anima metal-gotica del lavoro viene fuori in tutto il suo splendore; il giro di basso accompagnato dal cantato di Manson (cattivo al punto giusto) si assembla con efficacia alle ormai onnipresenti chitarre sfumate. Le due dissolvenze musicali, in cui gli strumenti quasi spariscono del tutto lasciando o solo le tastiere o solo la batteria ad accompagnare il canto minaccioso, sono pause agghiaccianti e splendidamente eseguite che, oltre a nobilitare il brano, lo portano a contendere la palma di migliore del lotto a "Third day".
L'ascolto risulta quasi sempre piacevole e ti spinge ad andare avanti senza momenti di noia:questo è senz'altro un grande punto a favore per l'album, che però con "Birds of hell awaiting" cambia momentaneamente registro; il pezzo ha delle fortissime sfumature country e mentre in alcuni frangenti sembra il seguito di "The dope show" con numerosi orpelli e arrangiamenti più elaborati, in altri assume le caratteristiche di una versione edulcorata e appesantita di quel rock tipico dell'America motociclistica, quella delle Harley e delle strade sconfinate che poco si addice allo stile mansoniano. Tirando le somme, il brano risulta un pò impiastricciato e troppo elaborato anche se calza alla perfezione nella scaletta, perchè riesce a mantenere un minimo di aria malsana che diventa un ponte necessario per arrivare a "Cupid carries a gun", altro highlight dell'album.
"Cupid" è ben strutturato e dosato con maestrìa e saggezza, e presenta numerosi richiami ai successi passati del Reverendo senza autocitarsi troppo; il sound torna ad essere decisamente sinistro, angosciante, ed è la stoccata definitiva che rende il giudizio di questo disco più che positivo. La conclusiva "Odds of even" infatti, non aggiunge nulla a quanto già ascoltato, e semmai riconferma l'atmosfera infetta di tutta l'opera, che viene accentuata e rimarcata dalle 3 inquietanti litografie che sono incluse all'interno della copertina (raffiguranti immagini astratte in bianco e nero). Ad impreziosire il tutto, oltre agli splendidi vinili bianchi, trovano posto ben 3 bis di notevole fattura:"Fated,faitful,fatal" è una riproposizione acustica di "Mephistopheles",  "Day 3" la versione light di "Third day" ed ascoltarle in questa nuova veste, seppur spoglia, ci permette di assaporare le stesse atmosfere conturbanti in modo diverso, ma pur sempre penetrante e significativo.
La terza bonus track, "Fall of the house of death" è invece una versione lenta di "Odds of even", dove ricompaiono quelle tastiere cimiteriali e agghiaccianti che spesso si sono affacciate ad accompagnare svariati brani di questo "Pale emperor". 
Ora, molti potranno dire:Marilyn Manson non scandalizza più, si è ammorbidito, non è più dissacrante come una volta. Vero, ma vi siete resi conto che sono passati 25 anni da "Portrait of an american family"? Prima - e siamo proprio al limite - qualcosa su cui battere chiodo per scandalizzare la gente si trovava ancora, e Manson è stato abile e sfruttarlo. Oggi le cose sono cambiate, ed è rimasto ben poco su cui far leva:se si cerca di turbare l'immaginario dell'ascoltatore a tutti i costi, il rischio è quello di autocaricaturizzarsi e rendersi ridicolo, quindi Manson ha dato prova di intelligenza e capacità artistica poco comuni:ha dato alle stampe un lavoro più che buono (finalmente) senza eccedere nei proclami e nei gesti eclatanti, ma cospargendolo di una lieve aura inquietante che permane dall'inizio fino alla fine dell'ascolto. Ha giocato su terreni a lui consoni con finezza ed argume, ispirandosi ai suoi lavori precedenti e aggiungendo un tocco ancor più cupo (da cui traggono origine i migliori lavori di Bauhaus e Tom Waits) e cercando di instillare nell'ascoltatore un senso di disagio crescente man mano che l'album va avanti; è questa la chiave di "The pale emperor" a mio avviso, tant'è che per il sottoscritto l'effetto è stato molto incisivo. 
Certo, il lavoro che è in arrivo tra poche settimane dovrà confermare la ritrovata verve del Reverendo, nella speranza che non torni pallida (pale) e che lui riconfermi il suo status di "imperatore" (emperor) del rock gotico. Il personaggio è discutibile, può piacere o non piacere; ma qui si parla di musica, e per quanto mi riguarda,se vi piace il rock, questo disco almeno un ascolto lo merita tutto. (R.D.B.)


VOTO : 8/10
BEST TRACKS : "THIRD DAY OF A SEVENTH BINGE", "THE MEPHISTOPHELES OF LOS ANGELES", "CUPID CARRIES A GUN", "DEEP SIX", "THE DEVIL BENEATH MY FEET"