lunedì 28 agosto 2017

RECENSIONE:MICHAEL JACKSON - BAD (1987)


MICHAEL JACKSON - BAD (1987)
LABEL : EPIC RECORDS
FORMAT : LP





No, questa non è per niente facile. Come poter scrivere in modo neutrale di quello che io considero, in assoluto, il mio album preferito? Cercherò di inquadrarlo storicamente, di farne una cronaca strettamente artistica e di limitare il più possibile i giudizi personali; mi sembra ovvio, è l'unica strada per riuscire ad essere imparziale. Il dilemma, prima di iniziare a scrivere è stato questo:se non assegno il massimo voto a "Bad" di Michael Jackson, a quale altro disco potrei metterlo? Alla fine, dopo diverse considerazioni e senza neanche pensarci troppo, il dilemma l'ho risolto. E quindi, se volete già da subito togliervi lo sfizio di sapere che voto avrà questo album, scorrete pure la pagina fino in fondo. Le motivazioni, invece, ve le potrete ricavare qui di seguito, traendo delle conclusioni da quello che sto per raccontare.
Per farlo, è necessario montare sulla macchina del tempo e tornare esattamente al luglio del 1987, ovvero trent'anni fa, precisi precisi. Già, perchè la scelta di parlare di questo disco proprio adesso, è tutto tranne che casuale:festeggia il suo trentennale, ok; ma ho deciso di pubblicare questo post oggi, 29 agosto, perchè è la ricorrenza del compleanno del re del pop. Un'ulteriore coincidenza, è che "Bad" usciva, nel 1987, proprio alla fine di agosto:una catena di eventi del genere, perdonatemi, andava celebrata a dovere.
Il Michael Jackson che si affaccia ai primi mesi del 1987, è un'artista che si porta sulle spalle un fardello enorme:l'ingombrante e mastodontico successo del precedente "Thriller" che, datato dicembre 1982, viene riconosciuto proprio nei primi mesi dell'anno come "album più venduto di tutti i tempi" dal guinness dei primati. Nei 4quattro anni e pochi mesi trascorsi tra l'uscita del disco dei record e l'inizio dell'87, Jackson ha scritto e prodotto "We are the world", riunendo un cast stellare nel progetto "Usa for Afrika", ha fatto qualche comparsata in dischi altrui (Diana Ross, Rockwell e il fratello Jermaine), e partecipato da protagonista ad un mini-film in esclusiva per la Disney, "Captain Eo" (diretto da George Lucas e Steven Spielberg), contenente due brani inediti incisi per l'occasione a far da colonna sonora. Stop. Un pò pochino, tant'è che la stampa - impietosa come sempre - pur di vendere sfruttandone il nome, inventa storie poco credibili, gossip e falsità varie sull'artista, giocando anche sulla mancanza di apparizioni pubbliche, e su una totale assenza di interviste e notizie circa nuovi progetti. I fans, inoltre, sono al limite della pazienza, visto che il successore di "Thriller" viene annunciato da ormai un paio di anni e sistematicamente rimandato. 
I JUST CAN'T STOP LOVING YOU 12'' LIMITED
Ma il 1987 nasce sotto una buona stella, le voci su un'imminente comeback iniziano a diventare sempre più insistenti e diventano poi realtà nel mese di luglio, quando nei negozi viene distribuito il singolo che anticipa l'uscita dell'album (prevista un mese dopo), "I just can't stop loving you". Perchè tutti questi rinvii, e tanti anni di attesa? Si potrebbe riassumere questo ritardo con poco, citando le parole testuali del produttore Quincy Jones, con il quale Jackson aveva già collaborato negli album precedenti:"Ho avuto come l'impressione che Michael trovasse ogni scusa per evitare di affrontare l'inizio di un nuovo disco". Chiunque avrebbe avvertito questo tipo di pressione; "Thriller" sarebbe stato termine di paragone (con il nuovo lavoro che sarebbe stato per forza di cose perdente) e metro di giudizio per il mondo intero, e Michael Jackson non solo voleva proporre un disco all'altezza, ma addirittura migliore, sia a livello qualitativo che in termini di vendite:il primo obiettivo, a conti fatti, verrà centrato in pieno, non il secondo che, del resto, si rivelerà come un'impresa ai limiti dell'impossibile ("Bad" è comunque ancora oggi nella top 10 degli album più venduti:meglio specificarlo per evitare che qualcuno possa pensare che sia stato un flop).
E così partecipo anche io, a distanza di tanti anni, al giochetto che in molti pregustavano all'epoca dell'uscita del nuovo disco:se proprio vogliamo paragonarlo a "Thriller", "Bad" è un album più maturo rispetto al suo predecessore; è meno black e più pop, e senza dubbio offre un sound più moderno ed elaborato. 
Più di tutto, colpisce la capacità di avere tutti i brani (tranne uno) pubblicati come singolo (i primi cinque, a cavallo tra il 1987 e 1988 riescono a piazzarsi tutti al numero 1 in USA, segnando un ulteriore record a favore della popstar), il che lo rende una sorta di "greatest hits"; credo, a memoria, che in rapporto al numero di brani proposti non esista lavoro discografico capace di tanto.
"Bad" diventa, inoltre, un ulteriore passo in avanti per la carriera di Michael Jackson:è il trampolino di lancio per il primo tour da solista, il "Bad Tour", ovviamente campione di incassi, e genera la bellezza di 10 video ed un film ("Moonwalker") che ne conferma le doti di intrattenitore, innovatore, ed artista completo, iconico, istrionico, unico nel suo genere.
Senza dubbio, si tratta di un album universale, che può piacere a qualsiasi amante della musica; è un miscuglio incredibile di sonorità provenienti da un pò tutti i generi:c'è R&B, c'è soul, gospel, rock ed (ovviamente) pop. 
Ma è soprattutto un album dall'anima dance, con degli autentici classici da pista da ballo.
MICHAEL JACKSON - BAD
Il disco si apre con la title-track:quattro minuti tiratissimi di puro synth-pop, e di sicuro impatto:è qui che si intuisce l'evoluzione di Michael Jackson come cantante ed interprete, ed è qui che si ha da subito la certezza che il tocco magico del re del pop è tutt'altro che esaurito. "Bad" travolge con una base ritmica scandita alla perfezione ed arrangiata in modo superbo, dove la voce di Michael si muove costruendo un percorso melodico che fa perno su un ritornello di facile presa e travolgente. Lo splendido assolo di Hammond a metà canzone, ricordo nostalgico degli anni 60, è in netto contrasto con la base ancor oggi attualissima, caratteristica che possiamo ritrovare in tanti successi anche più datati di Jackson (immaginate di sentire oggi in radio una "Billie Jean", una "Rock with you" o una "Beat it" presentata come "novità", e ditemi se non ho ragione). 
THE WAY YOU MAKE ME FEEL JAPANESE 12'' SINGLE
La successiva "The way you make me feel" segue lo stesso percorso danzereccio, assalendo l'ascoltatore con delle percussioni ossessive su cui si dipana lo sviluppo della melodia; il cantato di Michael, che tocca note altissime ai limiti del falsetto, viene interpuntato dai cori nel ritornello, creando un impasto azzeccato e fulminante. Il terzo solco è un capolavoro di musica elettronica, originalissimo sia nella produzione che nell'interpretazione:"Speed demon" parte (letteralmente e musicalmente) con una sgasata di motore, sulla quale si sviluppa una base dal ricchissimo arrangiamento, fatto di chitarre, synclavier e sax. La voce, ruvida e tirata nelle strofe, nel bridge diventa improvvisamente un falsetto pazzesco; va considerata a tutti gli effetti come uno strumento aggiuntivo che si amalgama alla perfezione ad un vero e proprio concerto dalle sonorità più disparate, da ascoltare in autostrada sulla corsia di sorpasso, con il piede sull'acceleratore pigiato al massimo. Considerato un pezzo minore del disco, in realtà "Speed demon" è un'autentica genialata di musica sintetica e campionata:roba da far invidia a chi, oggi, lavora quasi totalmente una base davanti ad un pc.
LIBERIAN GIRL RARE UK 12'' B/W YOU CAN'T WIN
Dopo tre stilettate senza respiro, arriva il primo lento, e signori, lasciatemelo dire:che lento! "Liberian girl" è pura poesia per le orecchie, una manciata di minuti carichi di intensità in cui si susseguono tastiere evocative e percussioni africane; una splendida ballad, affascinante e ricca di sfumature, interpretata magistralmente da Michael. Provate ad ascoltarla sdraiati, al buio, in cuffia:vi accorgerete che questa è musica che vive e respira, e vi porterà - anche se per poco - in un'altra dimensione.
La facciata A dell'album si chiude con "Just good friends", duetto d'eccezione con Stevie Wonder:anche se il brano di per sè non è niente di eccezionale, è curioso che sia stato l'unico a non essere lanciato come singolo; un duetto di questa portata poteva essere relegato al ruolo di comprimario solo in un album come "Bad". 
Il pezzo è comunque fresco e divertente, e si percepisce un certo divertimento nell'inciderla da parte delle due superstar, le cui voci si concatenano in un continuo alternarsi dal finale pirotecnico.
Mentre giro il disco sulla facciata B, rifletto su quanti album possono vantare una sequenza di brani di questa portata, variegata e micidiale. La risposta è scontata:"pochi, anzi:quasi nessuno".
La puntina riparte suonando "Another part of me", brano già incluso in "Captain Eo", ma qui riarrangiato e perfezionato (quello nel mediometraggio era chiaramente un demo). Il testo è privo di grossi significati al di fuori della storia del film, ma ancora una volta è l'impianto sonoro a farla da padrone; l'orchestrazione è avvolgente, gli arrangiamenti magistralmente assemblati e sequenziati, in perfetto sincrono con un Michael dalla timbrica alta, eclettico e totalmente a suo agio nell'interpretazione. 
Con "Man in the mirror", poi, il re del pop cala uno degli assi nella manica dell'intero progetto (e non sarà l'unico):scritto da Glenn Ballard e Siedah Garret; si tratta di cinque minuti di altissimo spessore musicale e dal contenuto soul interpretati in modo sublime; da metà canzone in poi, il brano diventa un inno gospel, che costituisce un auto-invito a rivedere le proprie abitudini, ad aprire gli occhi ed aiutare il prossimo per vivere in un mondo migliore:
"I’m gonna make a change, for once in my life
It’s gonna feel real good, gonna make a difference
Gonna make it right...
As I turn up the collar on my favorite winter coat
This wind is blowin’ my mind
I see the kids in the street, with not enough to eat
Who am I, to be blind? Pretending not to see their needs
A summer’s disregard, a broken bottle top
And a one man’s soul
They follow each other on the wind ya’ know
’Cause they got nowhere to go
That’s why I want you to know
I’m starting with the man in the mirror
I’m asking him to change his ways
And no message could have been any clearer
If you wanna make the world a better place
Take a look at yourself, and then make a change..."
"Se vuoi che il mondo sia un posto migliore, guarda te stesso e fai un cambiamento":questo è il messaggio della canzone, che vede Jackson dare il meglio di sè, sfoderando tutte le sue grandissime doti vocali. E come non richiamare alla memoria, l'emozionante esibizione ai grammy del 1988 del brano? "Man in the mirror" è senza dubbio uno degli episodi più riusciti dell'intera carriera di Michael, tanto da diventare una canzone-simbolo al pari della già citata "We are the world".
La co-autrice del pezzo, Siedah Garret, è anche la protagonista di "I just can't stop loving you", secondo duetto del disco e, come già detto in precedenza, brano scelto come singolo di assaggio prima dell'uscita dell'lp. All'epoca questa decisione lasciò un pò spiazzati i critici, un pò per la scelta di Siedah, allora sconosciuta, come partner, ed un pò perchè non era il pezzo dance che tutti si aspettavano. In realtà, Michael Jackson e Quincy Jones hanno seguito lo stesso modus operandi del precedente "Thriller", anticipato anch'esso da un duetto ("The girl is mine" con Paul McCartney), che era un lento (meno romantico e più giocoso di questo, ma pur sempre un lento). Ad ogni modo, la scelta risulta ancora una volta indovinata, visto che "I just can't stop loving you" riesce a raggiungere il numero 1 nelle classifiche in quasi tutti i paesi. Orecchiabile e ben strutturato, il brano si apre con la voce di Michael che sussurra versi d'amore; quando subentra il pianoforte, il canto cresce e viene doppiato dalla voce della Garret, trasformando il pezzo in un duetto serrato capace di esplodere in un ritornello tanto semplice quanto immediato. Giunti a questo punto, nei pressi dei due brani di chiusura, è palese come Michael Jackson sia già riuscito ad offrire un lavoro complessivamente all'altezza di "Thriller". 
L'ascoltatore è ancora inebriato dalle atmosfere delicate e soffuse di "I just can't stop loving you" quando irrompe il cupo intro di "Dirty Diana", che spariglia le carte e cambia totalmente il mood precedente. Introdotto da un apparente pubblico "live", questo pezzo riporta Michael ad un rock sanguigno e diretto, che esplode in un indovinato giro di chitarra di Steve Stevens (già chitarrista di Billy Idol). Il synth ipnotico, il tappeto di tastiere e il basso pulsante creano un "effetto onda" misterioso e grave, al quale si aggiunge l'ennesima prova vocale ed interpretativa sopra le righe, che rende il pezzo magnetico, da ascoltare con il fiato sospeso dall'inizio alla fine:
"She likes the boys in the band
She knows when they come to town
Every musician's fan after the curtain comes down
She waits at backstage doors
For those who have prestige
Who promise fortune and fame
A life that's so carefree

She's says that's okay
Hey baby do what you want
I'll be your night lovin' thing
I'll be the freak you can taunt
And I don't care what you say
I want to go too far
I'll be your everything
If you make me a star...
"

Per la prima volta, Jackson si spinge in una realtà amara, e "Dirty Diana" rappresenta un'ulteriore evoluzione nel songwriting del re del pop:e' infatti la storia, narrata per immagini, di una groupie di provincia disposta a tutto pur di entrare a far parte del mondo dello spettacolo. Il finale, che riprende il climax complessivo, richiama a sè tutta l'orchestrazione in un'esplosione definitiva di rara efficacia, giusto epilogo di un pezzo splendidamente realizzato.
Ultimo brano in scaletta è "Smooth criminal", altro grande esempio della capacità di Michael Jackson di variare timbro vocale ed elaborare autentici capolavori pop. Questo brano diverrà, negli anni, uno dei grandi classici del repertorio jacksoniano ed uno dei brani più apprezzati dal grande pubblico. Con un'apertura inquietante, fatta di battiti cardiaci e respiri affannosi, si ha di nuovo la sensazione di essere entrati in un nuovo capitolo horror in pieno stile "Thriller". In realtà, "Smooth criminal" è un racconto noir di un assassino che si introduce nella casa di una fantomatica Annie per ucciderla. L'epilogo, triste e psicopatico, viene solo lasciato intuire:
"As he came into the window
It was the sound of a crescendo
He came into her apartment
He left the bloodstains on the carpet
She ran underneath the table
He could see she was unable
So she ran into the bedroom
She was struck down, it was her doom
Annie, are you ok?
So, Annie are you ok
Are you ok, Annie
Annie, are you ok?...
"
 

Chi di noi non ha mai cantato, almeno una volta nella vita, quella strofa "Annie are you ok? so Annie are you ok? Are you ok Annie"?. Quello Di Jackson è un cantato scattoso ed a tratti "ruvido", che si sovrappone ad una base sincopata carica di percussioni e fiati che si inseguono in rapida successione su un refrain spettacolare per orecchiabilità ed immediatezza.
Nelle edizioni in cd, "Bad" regala anche una bonus track, "Leave me alone", primo grido di rabbia di Michael Jackson nei confronti dei media e delle chiacchiere costruite sul suo conto (negli anni successivi, questa diverrà una delle tematiche predominanti di numerosi brani della popstar); ancora una volta l'incastro di arrangiamenti è sublime, ma il passaggio forte del pezzo è il ritornello, dove la voce di Michael viene doppiata dai cori cantati da lui stesso, in un effetto "a cascata" davvero originale.
Il video, incluso nel film "Moonwalker" è un chiaro segnale delle prime insofferenze di Jackson alla pressione dei media, e metaforicamente vede un luna park gigantesco costruito sul suo corpo disteso, che gira vorticosamente soffermandosi su tabloids con falsi gossip, animali vari e personaggi bizzarri che rappresentano le invenzioni della stampa sul suo conto; un turbinío di immagini mai casuali, ognuna con un messaggio ben indirizzato, che va avanti fino a quando egli, stufo, decide di alzarsi distruggendo tutto.
"Bad" si chiude così, senza un attimo di noia, inanellando undici brani di una varietà pazzesca, e sempre di ottimo livello:di questi, alcuni sono semplicemente belli, altri spettacolari ed "instant classics", mentre una buona metà possono tranquillamente essere definiti capolavori assoluti. Con questo grande ritorno, il re del pop mette a tacere le malelingue e chi lo dava per cotto e finito; rinnova il suo status di superstar, alimenta il mito di artista unico e vende la bellezza di trenta milioni di copie, cifra che lo porta ad essere negli anni seguenti alla sua uscita il secondo disco più venduto di sempre (oggi le copie vendute sono quarantacinque milioni e, come già detto, l'album staziona ancora tra i primi dieci di quella particolare classifica di best-sellers). 
Credo sia sciocco ed inutile aggiungere un mio parere in merito, perchè ció che ho descritto è abbastanza chiaro, e dimostra come questo disco sia pressochè perfetto e praticamente inattaccabile. Mi limito a dire che già all'epoca era difficile trovare album di tale livello, ambiziosi, innovativi, emozionanti, completi e qualitativamente ben prodotti. Oggi, ammettiamolo:è impossibile.
"Bad" rimarrà per me una pietra miliare unica nel suo genere, e questo lo dico non da fan, ma da ascoltatore di musica; commerciale, certo, pop quanto vi pare, ma pur sempre un classico senza tempo. Un disco essenziale, insomma, di un'artista essenziale:l'unico, ed inimitabile, Michael Jackson.
Buon compleanno Michael, spero di aver reso onore a questo gioiello sonoro che ci hai lasciato in eredità.
(R.D.B.)




VOTO : 10/10
BEST TRACKS: "DIRTY DIANA", "SMOOTH CRIMINAL", "MAN IN THE MIRROR", "BAD", "LIBERIAN GIRL", "THE WAY YOU MAKE ME FEEL", "SPEED DEMON","I JUST CAN'T STOP LOVING YOU", "ANOTHER PART OF ME", "LEAVE ME ALONE", "JUST GOOD FRIENDS".












domenica 20 agosto 2017

RECENSIONE:TARJA TURUNEN - THE SHADOW SELF (2016)

TARJA TURUNEN - 
THE SHADOW SELF (2016)
LABEL : earMUSIC
FORMAT : 2 X CD DELUXE EDITION







Se non avete mai sentito la voce di Tarja Turunen...beh, fermatevi qui:smettete di leggere ed andate immediatamente a procurarvi almeno un suo disco. E magari, già che ci siete, anche uno dei primi 4 dei Nightwish, il gruppo di cui ha fatto parte e di cui è stata leader per circa un decennio, dal 1996 al 2005. 
Questa cantautrice finlandese, dalla formazione classica, con tonalità da soprano e interprete metal (non sono impazzito, giuro!), è quanto di meglio si possa chiedere di pescare negli scaffali di dischi, ma anche un chiaro esempio di come, artisti di una portata enorme possano essere relegati ad un singolo genere di nicchia, e rimanere sconosciuti ai più.
I Nightwish lo hanno sfiorato il colpo grosso:con l'album "Once" del 2004 e il successivo tour mondiale, sembrava essersi aperto davanti a loro un portale dai confini illimitati; ma per ragioni che non sto qui a disquisire, la strada del gruppo e quella della loro leader si è divisa. I Nightwish da allora, non sono stati più gli stessi, hanno cambiato almeno un paio di volte vocalist ed inevitabilmente hanno perso smalto e seguito. Tarja, invece, ha continuato il suo percorso a cavallo tra il power-metal e la musica classica, con chiare componenti operistiche e folk. Lo ha fatto in modo egregio, ricalcando spesso i tratti dell'ex gruppo ma concedendo - come è ovvio che sia - ulteriore rilievo alla sua splendida voce. "The shadow self" è il settimo lavoro dell'artista finlandese, ed è, per certi versi, uno dei migliori lavori che ha prodotto dal suo esordio "My winter storm", di cui sviluppa e matura diverse tematiche esistenziali, e dal quale riprende ispirazione e strutture melodiche.
Anticipato due mesi prima dell'uscita da un succoso assaggio intitolato "The brightest void", graditissimo regalo ai fans poichè con le sue 9 tracce è molto più di un E.P., "The shadow self" prende il titolo da una citazione di Annie Lennox, e, come spiegato da Tarja stessa, dall'idea di "rappresentare il lato oscuro che ognuno di noi si porta dentro; ognuno lo ha, ed in particolar modo noi artisti, che attingiamo molto da questa parte nascosta del nostro animo".
Con i suoi lavori, Tarja ha la capacità di trasportare l'ascoltatore in un mondo fatato, magico, lontano anni luce da quello reale; é una caratteristica da sempre costante in ogni sua opera, ed è in quest'ottica che va analizzato anche questo disco:la voce, meravigliosa e capace di toccare registri unici in questo genere, abbinata a sonorità orchestrali di pregevole fattura, dona vita ad un mondo dove la bellezza è la regina incontrastata, la malinconìa un sentimento persistente, e l'elemento fiabesco un ingrediente fondamentale. E così, passando attraverso una porta magica che si affaccia in una realtà diversa dalla nostra, ti rapisce per un'ora e ti fa dimenticare dell'ambiente circostante, proprio come un libro che ti piace e ti appassiona, o come un dipinto che ti fa soffermare su dei minuscoli dettagli che raccontano una vita, una storia. In tutto ciò, l'unico appiglio che riporta alla realtà è quello che ti comunica attraverso le sue strofe, mai banali, che rappresentano l'elemento che fa da tramite tra i due mondi. Riaprire questa porta immaginaria per tornare nei luoghi tracciati dalla cantante finlandese è tanto piacevole, ogni volta che ascolti un suo disco, quanto doloroso; perchè sai che prima o poi, quello stesso portale ti ricapulterà nella cruda ed amara realtà.
Posso affermare con certezza che, in ogni caso, valga sempre la pena di intraprendere un viaggio del genere. Perchè in fin dei conti, è proprio questo uno degli elementi chiave di cui un ascoltatore di musica è in cerca:una fuga mentale fatta di emozioni, sentimenti, ricordi e sogni. Lo stesso ying e yang che Tarja ha tracciato come concept di questo disco (il chiaro/scuro del nostro animo) è rappresentato in modo più ampio dall'esistenza di questi due mondi:quello reale, da cui proveniamo, e quello fatato in cui ci introduce con le sue opere.
E così mi appresto a varcare di nuovo la soglia di questo portale immaginario, e sarò il vostro cantastorie; vi racconterò di un mondo incontaminato e favoloso, dove la natura risplende in tutta la sua bellezza con dei colori vividi, l'orizzonte è l'unico confine di un cielo azzurro, e l'aria è leggera, profumata, fresca; la regina Tarja è la guida e la musa di questa creazione.
A trascinarti attraverso il vortice immaginario ed ammaliante di "The shadow self", ci pensa il pianoforte delicato di "Innocence", che ti prende per mano e ti accompagna per tutta la durata del brano, mostrandoti sin dalle prime battute l'ambientazione di questo universo parallelo, ed i luoghi dove Tarja condividerà una parte di sè stessa:
"You're not alone below the moon
All of us wait, for moment's gone too soon
You and me, breathe, to ignore the reason
Freedom, scream again
Inside of me, doors will stay open
A thousand lives to live
Waiting like universes do without an end
Love break into my innocence
Innocence, innocence, innocence
Innocence, innocence..."
"Dentro di me le porte resteranno aperte, migliaia di vite da vivere, da aspettare come gli universi che non hanno fine, amore che irrompe nella mia innocenza..." è il manifesto con cui la regina ti offre ospitalità nel suo regno incantato, dove questa sonata tecnicamente impeccabile prende vita e forma.
E' un inizio delicato, un pò come tutta la prima parte dell'album, che cresce diventando più energico e trascinante traccia dopo traccia fino a tornare tranquillo e sognante, come un'onda che si carica, si infrange su uno scoglio e si lascia ricadere nel suo mare. Il break a metà brano è un qualcosa di veramente magistrale, gli strumenti svaniscono e lasciano il piano in piena solitudine, a rincorrere note come se fosse sospeso in aria.
Le seguenti "Demons in you" e "No bitter end" entrano nel vivo del leit-motiv del disco, riportando alle sonorità tipiche del power metal dei Nightwish. "No bitter end" in particolare, colpisce per il suo intro delicatissimo (con il pianoforte sempre a dettare l'incipit atmosferico), inghiottito quasi subito dalle chitarre e dalla voce di Tarja, volutamente in contrasto con la base musicale. Il ritornello orecchiabile e ben strutturato ha fatto sì che divenisse il brano di punta dell'intero progetto, scelta peraltro azzeccatissima.
L'entrata in questo mondo affascinante lascia storditi, per le mille sfaccettature che il tessuto melodico, creato su misura per la voce di Tarja, offre; quando però ci si addentra nel cuore dell'album, quel disorientamento diventa meraviglia:una sopresa improvvisa, completamente inaspettata, è la cover di "Supremacy" dei Muse, che vede Tarja raggiungere dei picchi vocali pazzeschi. L'interpretazione originale di Matthew Bellamy (presente sull'album "The second law") era già riuscitissima ed obiettivamente era un compito abbastanza complicato fare di meglio. "Supremacy" è una canzone che ben poche voci possono permettersi di cantare, e se qualcuno poteva accostarcisi con naturalezza, ed offrirne una versione all'altezza, questa forse non poteva che essere l'artista finlandese. L'originale resta sempre superiore a questa riproposizione, ma ascoltarla in quest'ambito più rockeggiante ed a tratti più possente ha comunque il suo fascino, oltre a dimostrare la capacità di estensione vocale della bravissima interprete.
Idealmente, "Supremacy" è il passaggio definitivo con cui "The shadow self" cattura l'ascoltatore:è un sentiero che si staglia nel mezzo di un prato sconfinato; ed è qui che Tarja diventa guida spirituale del viaggio:i fiori, gli alberi e il tripudio di colori circostanti (ovvero la varietà stratificata delle melodie) diventano solo un elemento di contorno, la cui strada porta dritti al cuore del disco, ed al suo capolavoro, intitolato "The living end".
Introdotta da arpeggi di chitarra acustica, questa magnifica canzone vive e respira ancora una volta grazie alle note di pianoforte, che si fondono con la voce di Tarja in un susseguirsi spettacolare fino all'apertura del ritornello, in cui subentrano batteria e cornamuse:
"...Is the song that's forever
There's no need to surrender
Here with you now
Lights in the air
Devoted
No yesterday
Dying to live this moment
Growing stronger, taking over
Truth in your eyes,
See through my heart
It's open
Make me believe
Gives life to the path I've chosen..."
Nonostante le difficoltà, i periodi oscuri che la vita reale ci pone di fronte, Tarja dice di dimenticare il passato ("No yesterday"), che non c'è bisogno di arrendersi ("There's no need to surrender"), e che c'è sempre una persona (o un elemento della nostra esistenza) che, aprendoci gli occhi e vedendo attraverso il nostro cuore, è capace di dare un senso alla strada intrapresa ("gives life to the path I've chosen"). Dopo 3 minuti intensissimi, in chiusura la canzone torna lentamente sul registro iniziale, creando una sorta di "quiete dopo la tempesta" assolutamente ad effetto.
"The living end" vale, da sola, l'acquisto del cd:se nell'immaginario paesaggio in cui ci siamo addentrati il fascino è derivato da tutti gli elementi descritti fino ad ora, questo pezzo ne sarebbe la costruzione più imponente, il castello costruito nel mezzo, che si erge sul panorama mozzafiato.
Ma il viaggio di "The shadow self" non termina qui:c'è spazio per altre emozioni, con "Diva", pezzo che sembra provenire direttamente da un film di Tim Burton; stavolta, la struttura musicale classica si abbina a degli elementi circensi, dando un tocco di originalità in più ad un brano che altrimenti sarebbe stato troppo simile a "I walk alone", splendido episodio dell'album di esordio "My winter storm". Nel complesso, pur essendo uno dei passaggi meno riusciti dell'intero disco, funziona da ottimo ponte verso la parte finale del disco, composta da un trittico d'eccezione di assoluto livello:"Eagle eye", "Undertaker" e "Calling from the wild" sono delle cavalcate melodiche da antologia, avvolgenti ed incalzanti. In particolare, "Undertaker" è quella che spicca di più per il suo armonioso impasto di sonorità gotiche, metal ed operistiche che ricordano da vicino una suite da colonna sonora; le strofe, semplici e dirette, si dipanano una dopo l'altra fino al ritornello dove esplodono le chitarre elettriche, che ancora una volta sono solo uno dei molteplici elementi musicali in fase compositiva:
"Bring out to dead
I’ll bury them all
Leave them with me.
Dress them in silk
Black as the night
Where no one can see.
Paint them with dirt
Shallow their graves
Silent their names.
Swallowed by earth
Written in dust
Killing the fame...
"

Compare anche una venatura gotica nel testo, che risulta essere il più oscuro dell'intero lotto; si narra di un becchino, che vede svanire vite ("bring out to dead") inghiottite dalla terra ("swallowed by earth"), con tutte le loro storie di vita; corpi che diventano lapidi coperte da polvere ("written in dust") e nomi silenziosi ("silent their names"). In un racconto così serrato, venato di tristezza, è la morte che parla e si rivolge a colui che abbandona i corpi alla loro eternità (si intuisce dal passaggio "Undertaker I am why you came"); la morte infima e portatrice di dolore, esatta rappresentazione delle ombre dell'animo umano.
E' un'amara riflessione che va in netto contrasto con l'atmosfera dell'opera, ma che è purtroppo specchio della realtà:non c'è perfezione assoluta, non esiste gioia senza dolore, nè bellezza senza orrore.
"The shadow self" si chiude con "Too many", lasciando il sapore del viaggio che volge al termine, nel momento esatto in cui ci si ritrova di fronte al portale che ci ricondurrà alla vita reale, e che ci costringerà ad abbandonare questo luogo fatto di sogni ameni ed eterei. La melodia romantica e delicata del pezzo è quasi ipnotica, e non basta la sferzata energica del ritornello a modificarne il climax sognante. Il cd finisce cosí, lo stereo resta silenzioso e la porta del mondo della principessa Tarja si chiude, lasciandoti attonito sulla tua poltrona a fissare la finestra con un senso di vuoto, di qualcosa di lontano, andato. 
In realtà, quella porta non è mai chiusa definitivamente, ma solo accostata:l'entrata in quel regno è sempre a portata di mano (e di lettore cd), basta solo volerlo.
Questi dischi non possono essere etichettati banalmente come lavori "metal":eppure, ovunque vai, se cerchi un disco di Tarja è in quella sezione che la vai a pescare. Questo è un pò il limite che poi non permette ad artisti di tale levatura di incontrare il grande pubblico:ma vi garantisco che rispetto alle carrettate di musica spazzatura che ci costringono ad ascoltare radio e tv ogni giorno, qui siamo su tutt'altro livello; album come questi, che trascendono i generi e che sono suonati e prodotti con l'anima, meriterebbero almeno una volta di essere ascoltati.
Al di là di queste considerazioni che lasciano il tempo che trovano, "The shadow self" è un grande lavoro, forse - come detto in apertura - il migliore dell'intera discografica di Tarja Turunen; perchè qui, più che nei lavori precedenti, è riuscita con maturità e capacità non comuni a dosare in maniera perfetta tutti gli ingredienti delle sue opere del passato; se "My winter storm" era troppo cinematografico, "What lies beneath" forse eccessivamente oscuro, e "Colours in the dark" così carico di inserti tipicamente metal da sembrare una riproposizione sin troppo simile ai cari e (ahimè) ormai andati Nightwish, questo è un perfetto ibrido tra i 3, l'esatto compendio che racchiude tutti gli elementi in egual misura.
La meraviglia, in tutto ciò, resta quella di sapere di avere accesso a dei mondi paralleli che possono distoglierci dalla vita di tutti i giorni.
Con la musica si può e si deve viaggiare, sentendosi liberi di andare lontano con la testa; tenere quella di Tarja a portata di mano, è come avere un mazzo di chiavi che apre diverse porte che si affacciano su realtà lontane e meravigliose. Sono storie raccontate in note. Ed in una realtà troppo cruda ed eccessivamente amara, sono vie di fuga a volte utilissime, e spesso necessarie.

Chiudo questa recensione, riprendendo il cd di "Oceanborn", secondo lavoro dei Nightwish. Questo album contiene, tra le altre, la meravigliosa "Sleeping sun", a cui sono particolarmente legato:mi ricorda una persona in particolare, che all'epoca dell'uscita del cd avevo conosciuto da poco, ma che giá sapevo sarebbe stata parte integrante della mia vita; ricordo ascolti con gli auricolari divisi, imbambolati a guardare un soffitto. O un albero. O un cielo azzurro. Ebbene, quella persona é ancora oggi un perno fondamentale della mia esistenza. Un pezzo di cuore. Oggi, questo pezzo di cuore compie gli anni. Spero un giorno di riuscire a realizzare il desiderio comune di sentire Tarja cantare dal vivo e regalarci questa canzone. Questo pensiero é per te, Giorgia. So che lo leggerai. Buon compleanno! Grazie per esserci sempre.  (R.D.B.)

VOTO : 8/10
BEST TRACKS : "THE LIVING END", "SUPREMACY", "UNDERTAKER","NO BITTER END","INNOCENCE"



giovedì 10 agosto 2017

PLAYLIST:DAVID BOWIE #2

PLAYLIST:DAVID BOWIE #2

Come preannunciato, anche Bowie mi ha costretto a selezionare due playlist invece di una. Questa è la seconda parte, che curiosamente (giuro, non è stata una cosa premeditata) è incentrata di più sulla prima parte di carriera (3 brani su 5, infatti, risalgono agli anni 70). Questo credo sia dovuto al fatto che io abbia dato la precedenza al Bowie "vissuto" da me in prima persona:negli anni in cui ho iniziato a seguire e a capire di musica, sono usciti "Black tie white nose" e "Outside"; grazie a questi album (che di certo non sono da annoverare tra i migliori nella produzione del duca inglese) poi sono andato a scoprire i lavori precedenti. Un percorso a ritroso piuttosto contorto, certo:ma l'importante è aver recuperato quegli anni perduti e fondamentali per capire più a fondo le origini dell'uomo venuto dallo spazio.

1 - LIFE ON MARS?
"Life on Mars" risale al 1973, e fu pubblicata nell'album "Hunky Dory". Nata da una
rielaborazione degli accordi di "My way" di Frank Sinatra, con cui ha in comune l'origine (un brano francese di Claude Francois intitolato "Comme d'habitude"), la canzone narra l'amara storia di una ragazza dai capelli "grigio topo" ("the girl with mousy hair") che, delusa dalla vita che la circonda, si perde in una sorta di zapping davanti alla tv, dove le vengono mostrate tante realtà diverse che la affascinano ma a cui sa che non potrà mai avere accesso. Nel testo vengono citati Mickey Mouse e John Lennon, insieme a frasi ispirate da notiziari e programmi televisivi dell'epoca, fino ad arrivare ad un ricorrente e noiosissimo film che rappresenterebbe la vita reale; una vita già vissuta e che verrà replicata (e quindi rivista) tante altre volte ("But the film is a saddening bore,'cause I wrote it ten times or more, it’s about to be write again as I ask you to focus on...") perchè difficilmente cambierà. L'orchestrazione ricorda un brano tratto da un musical che, anche se in numerosi passaggi assume persino un taglio operistico grazie agli archi suonati da Mick Ronson, riesce a mantenere una chiara impronta glam. Tra le prime produzioni di Bowie, è quella che più mi ha colpito sin dai primi ascolti:vuoi per l'interpretazione sentita e teatrale, vuoi per l'atmosfera delicata, "Life on mars" resta un classico senza tempo, buono da risentire - e cantare - in qualsiasi momento della giornata.



2 - SPACE ODDITY
"Ground control to Major Tom...Ground control to Major Tom...Take your protein pills and put your helmet on...". "Space oddity" si apre esattamente con queste parole su degli accordi di chitarra acustica, e sfido chiunque a dire che non le abbia mai canticchiate almeno una volta. Nonostante ciò, il testo per molti rimane piuttosto criptico, sospeso tra una specie di alienazione del protagonista - probabilmente dovuta all'uso di droghe - dal mondo reale e tutto ciò che lo circonda ("For here am I sitting in a tin can far above the world...") e quella che sembra una concatenazione di metafore che probabilmente fanno riferimento alla relazione appena conclusa tra Bowie e Hermione Farthingale ("And I think my spaceship knows which way to go tell my wife I love her very much she knows..."). Io ci vedo una storia molto più semplice:il racconto di un'astronauta che si sente tremendamente solo nella sua navicella spaziale, lontano anni luce dalla casa e dagli affetti più cari (a volte bisogna semplificare le cose, senza andare a vedere troppo oltre quello che è scritto; ovvio, stiamo parlando di uno dei personaggi più visionari di sempre, ma questo non vuol dire che ogni singola strofa contenga significati nascosti). Pubblicata nel 1969, e contenuta nell'album dallo stesso nome, "Space oddity" è stata inclusa tra le "500 canzoni che hanno plasmato il rock'n'roll" della Rock'n'roll hall of fame, oltre a diventare, negli anni, uno dei brani più noti dell'intero repertorio del duca bianco.


3 - THE MAN WHO SOLD THE WORLD
Inclusa nell'album dallo stesso titolo del 1970, "The man who sold the world" è una meravigliosa canzone che all'epoca non venne accolta dal pubblico con il meritato entusiasmo, e che solo in un secondo momento venne rivalutata ed apprezzata a dovere. Non è mai uscita come singolo, ma la si può trovare come b-side del 45 giri di "Life on Mars?", uscito nel 1973. Qui, per dare un senso al significato della storia, purtroppo mi sono dovuto aiutare con il web, poichè il testo preso così, nudo e crudo, ai miei occhi non sembra avere un senso compiuto. In realtà, leggo di riferimenti a diverse opere letterarie, tra le quali solo i versi del poeta Hughes Mearns sono chiaramente riprovati (versi da cui deriva l'intero incipit del brano "We passed upon the stair, we spoke of was and when although I wasn’t there, he said I was his friend which came as some surprise, I spoke into his eyes I thought you died alone, a long long time ago..."). Gli altri accostamenti, sono delle semplici somiglianze e richiami che alcuni critici hanno notato con "Il compagno segreto" di Joseph Conrad e "Incontro di notte" di Ray Bradbury. Non avendo letto nè uno nè l'altro, non posso sblianciarmi nel dire quanto di queste due opere ci sia nella canzone. Sotto l'aspetto musicale, è l'ipnotico giro di chitarra ad essermi entrato subito in testa, ma devo ammettere che sono arrivato a questo brano solo grazie a Kurt Cobain e alla sua meravigliosa e toccante interpretazione inclusa nel "MTV Unplugged" dei Nirvana. Quella rivisitazione mi è rimasta nel cuore, ed è inutile descrivere la mia sorpresa quando ho scoperto che la versione originale era di David Bowie.



4 - THURSDAY'S CHILD
Questa splendida melodia segna il ritorno sulle scene di Bowie nel 1999. E', infatti, il primo singolo tratto da "Hours", ed è un malinconico resoconto di un passato in cui probabilmente il duca bianco non è riuscito ad ottenere quello che si aspettava, nè ad essere quello che voleva, arrivando a chiedersi se il destino non abbia voluto farlo vivere in un'epoca sbagliata, non "sua" ("Maybe I’m born right out of my time breaking my life in two..."). Ad un inizio piuttosto amaro, però, si contrappone un barlume di speranza, perchè adesso questo disagio sembra essere scomparso e Bowie si sente pronto a tagliare i ponti con quel passato ("Throw me tomorrow, now that I’ve really got a chance, Throw me tomorrow, everything’s falling into place, Throw me tomorrow seeing my past to let it go..."). L'atmosfera generale che pervade il brano è piuttosto delicata, raffinatissima, costruita su un'apertura di archi tastieristici che accompagnano la voce del cantautore, sempre toccante e profonda. Il titolo "Thursday's child" è ispirato dalla biografia dell'attrice di cabaret e cantante americana Eartha Kitt, uno dei libri preferiti di David Bowie; inoltre, utilizzando la metafora dei giorni della settimana, segna come giorno della sua rinascita il giovedì; in un arco temporale dove la settimana rappresenta la sua vita, infatti, si va a collocare esattamente nel mezzo di essa (Bowie ha composto il brano, insieme a Reeves Gabrels, all'età di 52 anni, il che rende il tutto coerente ed ancor più autobiografico). I giorni precedenti (Monday, Tuesday e Wednesday) rappresentano invece il passato, ovvero la prima vera nascita, l'adolescenza e la gioventù:tutti periodi di una vita "sbagliata", di cui l'artista si pente e con cui vuole tagliare i ponti. Anche il video ricalca la stessa tematica, mostrando Bowie di fronte ad uno specchio dove viene riflesso più giovane, in una sorta di confessione dell'io attuale a quello ormai andato e relegato al ruolo di semplice ricordo del tempo che fu.



5 - AS THE WORLD FALLS DOWN
Tratta dal film "Labyrinth" del 1986, di cui Bowie è anche protagonista, "As the world falls down" è una bellissima ballad, toccante e delicata, che impreziosisce la colonna sonora del film composta da Trevor Jones e contenente altri 4 pezzi inediti del duca. Sebbene tra i brani incisi per il disco, il più famoso sia senza dubbio "Underground", con questo lento Bowie dimostra ancora una volta la sua abilità nel comporre splendide canzoni d'amore; e così, con i versi "There’s such a fooled heart, beating so fast in search of new dreams, a love that will last within your heart, I’ll place the moon within your heart", modulati in tonalità decrescente, egli consola la sua amata; poi, la rassicura della sua presenza eterna nel ritornello:"As the pain sweeps through makes no sense for you, every thrill has gone wasn’t too much fun at all, but I’ll be there for you as the world falls down...". Forse nel contesto del film il pezzo risulta un pò forzato (accompagna una scena in cui Bowie, che è un Goblin, balla con la co-protagonista, Sarah, che è una bambina), ma in una qualsiasi compilation di "love songs" non se ne potrebbe fare assolutamente a meno. Dopo Ziggy Stardust, dopo Thin White Duke, con Labyrinth Bowie assume le sembianze di un nuovo alter-ego, Jareth, re del curioso mondo degli gnomi, enigmatico, malefico e spiritoso allo stesso tempo. Un personaggio dalle mille sfaccettature, che ancora una volta calza alla perfezione con la personalità camaleontica dell'artista e la sua capacità di reinventarsi. 


E così sono giunto alla conclusione di quest'altra faticosa selezione di canzoni. Ogni volta che si parla di grandi artisti la scelta è ardua, e richiede numerose riflessioni:è mia prerogativa, in questi casi, scegliere nel modo più corretto quello che rappresenta i miei gusti personali che, come ho già detto in apertura, possono essere discutibili e talvolta anche bizzarri. Un'affermazione che metterà senz'altro d'accordo chiunque stia leggendo, è certamente questa:con Bowie, la musica ha perso un altro artista pregiato, geniale e innovatore. Con il suo stile sempre all'avanguardia, ci lascia un'eredità musicale enorme, varia e pioneristica:un lungo elenco di brani che vengono ancora oggi riscoperti dalle nuove generazioni, e che continueranno a restare immortali. 
Questo è il mio Bowie. Ma è pur vero che, con spunti diversi, ed opere di altre epoche che io non ho citato, ognuno di noi ne porta almeno una piccola porzione dentro di sè, in quella che suona come la colonna sonora della nostra vita. (R.D.B.)



















PLAYLIST:DAVID BOWIE #1

PLAYLIST:DAVID BOWIE #1

Rivoluzionario ed innovativo come pochissimi altri, ecco un altro artista di cui non sono stato capace di tirare fuori una sola playlist di 5 canzoni; sono davvero tanti i gioielli che ci ha lasciato David Bowie in un arco temporale enorme:50 anni. 
Decadi e decadi di musica sempre sopra le righe, raffinata e ricercata, di personaggi bizzarri inventati ed interpretati da lui stesso, tanto amati quanto (spesso) discussi; decadi di risurrezioni artistiche e di rivoluzioni, di esperimenti al limite del comprensibile perchè le sue idee erano sempre un passo più avanti rispetto all'attualità, perse tra le più disparate influenze rielaborate e riviste ogni volta in una chiave del tutto personale, originale ed inimitabile.
Rob Sheffield, in un'introduzione ad uno speciale di Rolling Stone, definisce così la parabola artistica di quello che è stato, e resterà senza ombra di dubbio, uno degli artisti più istrionici e poliedrici dell'intero panorama musicale:"Qualunque Bowie abbiate amato di più, quello delle stelle glam, il delicato cantante di ballads o l'arciduca di Berlino, lui vi ha fatto sentire più liberi e più coraggiosi; ed è per questo che, dopo aver sentito cantare Bowie, il mondo intero si è sentito diverso. La sua astronave ha sempre saputo dove andare". Ora capirete che, oltre ad una difficoltà personale nell'individuare 10 brani per me fondamentali, in questa selezione finale molti - quasi tutti - potrebbero non trovarsi d'accordo con il sottoscritto. David Bowie, nella sua lunghissima carriera, ha realizzato qualcosa come 39 dischi, tra album in studio, colonne sonore, progetti alternativi e registrazioni live. Tralasciando quest'ultime, si parla di almeno 400 canzoni tra cui ognuno di noi avrà la sua preferita, quella più iconica e rappresentativa, o quella legata a dei ricordi particolari. Ognuno ha un qualcosa di Bowie nel cuore, e quasi tutti hanno negli occhi e nelle orecchie un qualcosa legato a lui. Ho rovistato tra i miei dischi, tra alcuni album di vecchie fotografie, vecchi libri e film per riuscire a definire quali dovessero essere le perle da inserire in questa collana, ed ora ve ne farò un breve resoconto.  
Nonostante questa cernita faticosa, noto con estremo dispiacere che ho tralasciato molto, forse troppo; ho dovuto escludere pezzi come "This is not America", "Starman" e "Hallo spaceboy" (a cui sono legato particolarmente per l'inaspettata collaborazione con i Pet Shop Boys), e questo, oggi, per me è anche un piccolo cruccio:perchè mi fa capire tardivamente la grandezza della produzione di questo artista, che forse in passato non ho apprezzato a dovere, ma che ora, come molti, mi ritrovo a dover rimpiangere. 
Questo è il mio Bowie in 10 canzoni, e spero che chi leggerà i due post che mi accingo a scrivere, possa ritrovare tra queste perle almeno una delle sue preferite. 

1 - WILD IS THE WIND
Introdotta da un semplicissimo giro di chitarra incatenato ad un basso predominante, "Wild is the wind" è pura poesia in musica; "Love me, love me, love me, say you do...let me fly away with you" ne è l'incipit, che cresce man mano d'intensità, con una monumentale prova vocale da parte di Bowie. 
E' un pezzo di rara intensità, dal sound grezzo e minimale, quasi torrido, come uno scirocco estivo che scuote gli alberi e l'erba alta in un viale di campagna; Il tocco poetico raggiunge il suo apice sul passaggio "Like the leaf clings to the tree, Oh, my darling, cling to me...For we're like creatures of the wind, and wild is the wind", prequel del culmine del brano, con la voce splendidamente modulata del duca che spiega le ali nel verso "You touch me, with your kiss my life begins". Ho notato che spesso "Wild is the wind" non viene considerata come meriterebbe dal grande pubblico. Eppure questo è forse il miglior Bowie, quello che graffia e lascia un segno perenne in chi lo "sente", ispirato, teatrale, intenso. Non ci sono tante parole per descrivere la canzone:va semplicemente ascoltata e vissuta. Sono 6 minuti di incanto che, ciclicamente, vi dovreste concedere.


2 - ABSOLUTE BEGINNERS
Datato 1986, questo brano è stato scritto e composto da Bowie per il film omonimo (in cui egli stesso recita) diretto da Julien Temple. Trae ispirazione dallo stile doo-woop anni 50, al quale il duca bianco, oltre alla solita interpretazione intensa, aggiunge la chitarra di Kevin Armstrong, il piano di Rick Wakeman ed uno splendido assolo di sassofono sul finale. 
"Absolute beginners" inoltre, riporta al pop più tradizionale con le sue aperture d'archi ed un ritornello arioso ed indelebile: 
"If our love song could fly over mountains, could laugh at the ocean, just like the films...There's no reason, to feel all the hard times, to lay down the hard lines, it's absolutely true...". Ciò lo rende senza dubbio uno dei pezzi più accessibili del repertorio  di Bowie, anche nelle numerose versioni proposte sia nella colonna sonora del film, che nei singoli (il mix del 12'' dura addirittura 11 minuti!). Di certo, è un grande classico, raffinato e ben congeniato, capace di volare alto anche nelle classifiche dell'epoca e molto più noto della pellicola per cui era stato pensato, che al botteghino si rivelò un mezzo flop. Era imprescindible per questa playlist, e credo che troverebbe il suo spazio anche nelle eventuali scelte di tanti altri fans.


3 - BLACKSTAR

Due giorni dopo l'uscita dell'album "Blackstar", Bowie ci ha lasciato. Non ho scelto di inserire il brano che da il titolo al disco per la sua aura triste che inevitabilmente si porta dietro, e che certo ha contribuito non poco a renderlo mitologico; semmai, quello che mi ha colpito di più è l'oscurità e la sofferenza che emerge da ogni singola nota, dove l'amara consapevolezza di un male che sta corrodendo lentamente l'artista si trasforma in una frenetica corsa contro il tempo per ultimare uno dei passaggi più enigmatici della sua intera carriera. Per non parlare poi del video, degna trasposizione in immagini del controverso messaggio che intende trasmettere, dove Bowie si trasforma in Button Eyespersonaggio inquietante, bendato e con dei bottoni al posto degli occhi. Un clip spiazzante, aperto a centinaia di interpretazioni, da seguire fotogramma per fotogramma. Ed infine, come non considerare anche la simbologia del pezzo, con l'elemento "stella" ricorrente, a richiamare lo "Starman" degli anni 70 e la sua rappresentazione più nota (Ziggy Stardust), che all'epoca era rappresentato da colori sgargianti, mentre adesso è nero come la pece, come la morte. "Blackstar" è un trip sonoro di quasi 10 minuti, il cui motivo principale è intervallato da 3 minuti scarni ed efficacissimi di pura melodia in classico stile Bowie, un inserto luminoso e carico di speranza in netto contrasto con il "guscio" (apertura e chiusura) del brano, inquieto ed oscuro, somigliante ad un canto rituale. E così, anche nel testo, ad un incipit dalla ritmica contorta, ansiosa ed estremamente criptica ("On the day of execution, on the day of execution Only women kneel and smile, ah-ah, ah-ah...At the centre of it all, at the centre of it all, your eyes, your eyes..."), fa da contraltare il passaggio intermedio, melodioso e commovente ("Something happened on the day he died, spirit rose a metre and stepped aside, somebody else took his place, and bravely cried:I'm a blackstar, I'm a blackstar..."). Inutile dire che, oltre ad essere premonitrici di ciò che accadrà al cantante, le lyrics offrono una miriade di interpretazioni soprattutto in chiave occulta ed esoterica (in molti hanno notato, anche nel video, dei chiari richiami alla filosofia di Aleister Crowley), cosa che le rende capaci di turbare e di colpire ancora di più l'immaginario dell'ascoltatore. Ad ulteriore riprova dell'esistenza di questo alone oscuro attorno alla canzone, ho letto online di numerosi palindromi nascosti ad arte, celanti messaggi subliminali circa il triste destino che attendeva Bowie di lì a poco (io non ho, sinceramente, approfondito questo discorso, ma la curiosità di suonare al contrario la canzone, a questo punto, è tanta). "Blackstar" è un brano difficile da mandare giù, pieno di richiami fusion, jazz, trip-hop e sperimentali, ma fondamentale perchè costituisce una sorta di "canto del cigno" dell'artista (come del resto tutto l'album) ed assume le sembianze di ultimo regalo per i fans prima della sua dipartita.


4 - EVERYONE SAYS "HI"
Questa è una canzone che ho letteralmente ascoltato fino alla sfinimento nell'estate del 2002:lo stile retrò e molto "easy-listening" ha contribuito a renderla una compagna costante ogni volta che mi apprestavo a guidare o a girare con l'i-pod tra le mani. Narra la storia della partenza (o del definitivo addio?) di una persona cara, ed attraverso piccoli flash riesce a trasmettere una certa malinconia:"Said you took a big trip, they said you moved away...Happened oh, so quietly they say...". E' una mancanza percepita e di cui si è saputo solo in un secondo tempo, quando non si ha neanche più la possibilità di un ultimo saluto, tant'è che il protagonista prima rimpiange di non avere neanche una fotografia insieme ("Shoulda took a picture, Something I could keep..."), e poi, realizzando che ormai l'assenza c'è, ed è percepibile, augura il meglio alla persona cara e lontana, sperando di ricevere presto notizie positive ("I'd love to get a letter, like to know what's what...Hope the weather's good and it's not too hot for you..."). Prodotta da Tony Visconti (a ricreare con Bowie un binomio di sicura affidabilità stilistica dopo anni di distanza) ed inclusa nell'album "Heaten", "Everyone says hi" è un altro di quei brani "minori" che meriterebbe un ascolto supplementare per coglierne la tristezza nascosta (volutamente) dietro la melodia solo apparentemente ariosa e leggera:è il sorriso di circostanza dietro un profondo disagio, dietro la malinconia che si prova quando percepiamo la mancanza di qualcuno a cui vogliamo particolarmente bene.



5 - THE HEART'S FILTHY LESSONS
Con "Outside", Bowie si spinge in territori ancora una volta innovativi per l'epoca, dove la musica industrial incontra il rock più aggressivo ed elettronico. Chiaramente influenzato da Trent Reznor (la chitarra distorta che accompagna tutto il brano è sua) ed i suoi Nine Inch Nails, "The heart's filthy lessons" è solo una tessera dell'enorme puzzle di una malsana storia, narrata traccia dopo traccia nel concept dell'album:il detective Nathan Adler (ennesimo alter-ego di Bowie) deve indagare sull'efferato omicidio di una ragazza di 14 anni, Baby Grace Blue, orrendamente mutilata e seviziata per poi essere esposta come macabra opera d'arte; è la creazione di un nuovo fenomeno di "criminalità a sfondo artistico", figlio di una realtà distopica del 1999 assolutamente disturbante e psicopatica. Qui Bowie, oltre ad introdurre elementi di musica industrial, torna a collaborare con Brian Eno, donando indubbiamente all'opera complessiva un'ulteriore atmosfera eclettica ed alternativa. "Filthy lessons" è un altro brano di difficile comprensione, ermetico ed in certi passaggi  indecifrabile se estrapolato al di fuori del contesto della storia di "Outside" (che comunque non ha un epilogo:era previsto un seguito, mai dato alle stampe); per questo non cito nessun passaggio in particolare del testo. Ho voluto fortemente includerlo in questa prima selezione perchè, vi sembrerà strano, è stato il mio primo approccio serio alla musica del duca bianco. "Outside" è stato il suo primo disco ad entrare nella mia discografia, e questa storia piuttosto inquietante e raccapricciante - da grande amante di film thriller ed horror quale sono - mi ha affascinato sin dall'inizio in modo particolare. 


Era inevitabile, un'artista come David Bowie non si può semplicemente racchiudere in questi 5 pezzi. E' necessario rendergli merito con una seconda playlist:è già pronta, ed è proprio qui, davanti a me. Devo solo scrivere, e raccontare di come si vive su Marte, in un paese pieno di gnomi, e di come sia alienante il viaggio sull'astronave per raggiungere quei luoghi. Non sono impazzito, e sono certo che chi legge e conosce bene il duca bianco, ha già capito dove sono andato a parare.
Tengo a sottolineare un'ultima cosa, che è un ulteriore indizio su uno dei brani che ho inserito nella seconda playlist:il giorno scelto per questa pubblicazione non è casuale. Avete visto, oggi, che giorno è? :-)