lunedì 29 luglio 2019

LIVE IN CONCERT - MUSE SIMULATION THEORY TOUR - Roma, Stadio Olimpico 20/7/19

MUSE - SIMULATION THEORY TOUR 
ROMA, STADIO OLIMPICO 20/06/19



Ventisette anni, signori. Tanti ne sono passati da quando i Muse si affacciarono per la prima volta sul panorama musicale; "Showbiz", l'album d'esordio, era un miscuglio del tutto originalissimo di rock esplosivo, ipnotico, guidato da melodie vincenti e da una voce pazzesca, quella di Matthew Bellamy, che è da sempre il loro marchio di fabbrica. Quella band sconosciuta venuta fuori da Teignmouth, con quel disco diede nuova linfa al filone del brit-rock, ormai ristagnante e sorretto quasi esclusivamente da nomi come Oasis, Blur, The Verve.
I Muse erano già allora una band che recitava uno spartito del tutto personale, ed erano già oltre i confini di qualsiasi classificazione di genere. La loro proposta venne etichettata come rock alternativo, e nonostante le radici provengano proprio da quell'ambiente, loro non erano solo quello; erano qualcosa di diverso, di unico:erano i Muse. E mentre tutti gli altri gruppi che spopolavano in quegli anni si sono un pò persi per strada (a memoria, direi che solo i Coldplay possono vantare lo stesso bacino d'utenza dei nostri), i tre ragazzotti inglesi, pur reinventandosi nel corso degli anni, sono ancora qui e sono ormai una solida realtà del rock contemporaneo. 
E di solide realtà di tale portata, credetemi, ce ne sono ben poche in giro; si contano sulla punta delle dita.
L'apertura, affidata ad una suggestiva versione di "Algorhythm" (che ritroveremo nella sua veste originale sul finire dello spettacolo), è un qualcosa di davvero magnificente, ed è talmente suggestiva da risultare addirittura epica:Bellamy scandisce le strofe "Algorhythms evolve, push us aside and render us obsolete" e mai parole furono più indovinate, perchè introducono il pubblico ad uno show visionario, fatto di luci che si muovono sugli spalti e laser che si stagliano sulla gente per arrivare sul palco, ballerini vestiti con giacche luminose che muovendosi creano effetti suggestivi, robot e scheletri giganti (in perfetto stile tridimensionale) che si agitano sul palco. La scenografia riesce a rimanere del tutto personale, ispirandosi alle atmosfere dell'ultimo disco, pur attingendo da tante idee già viste in altri spettacoli; tali idee sono di chiaro stampo ottantiano, però sono ovviamente rielaborate in chiave più moderna:del resto, la tecnologia va avanti in modo vorticoso, ed anche a distanza di pochi anni la resa di tanti effetti migliora sensibilmente.
La musica è solo uno degli elementi che vanno a comporre il puzzle, ma è ovviamente quello determinante, quello capace di legare il tutto e rendere lo show memorabile.
La scaletta è ben bilanciata tra pezzi tratti dal recente "Simulation theory" e alcuni dei grandi classici del repertorio del gruppo; ma è anche, a dirla tutta, un pò la nota dolente di questo concerto. 
Sono troppi i brani che ben si sarebbero adattati a questa scenografia e che sono stati omessi:penso a "Resistance", ma anche a "Supremacy"e "Follow me", per non parlare di "Unintended". 
Concentrare un repertorio vasto come quello dei Muse in due ore di concerto, del resto, non deve essere per niente facile. Ma il pensiero di dover affrontare "Dig down", a mio avviso una delle canzoni più brutte di Bellamy e soci, per l'occasione reinterpretata in chiave gospel (cosa che, almeno, l'ha resa più digeribile della versione originale) invece di aver modo di ascoltare uno dei brani sopra citati mi ha fatto girare un pò le scatole.
Questo pensiero non ha comunque rovinato quanto di buono i Muse sono riusciti a portare, ancora una volta, sul palco dell'Olimpico. Dopo una fase preparatoria, dove l'ultimo disco la fa da padrone con "Break it to me" e l'esplosiva "Propaganda", arrivano in successione "Uprising" e "Plug in baby", due classici senza tempo che fanno cantare e scatenare il pubblico. Ed il concerto entra nel vivo, spedito come un treno ad alta velocità senza soste:l'interludio "Pray (High Valyrian)" è un pezzo scritto ed interpretato dal solo Bellamy per un album ispirato a "Il trono di spade", ed è davvero emozionante e carico di pathos:sotto il cielo stellato di Roma fa sognare, trascinandoti in una dimensione alternativa. E', questa, la perfetta introduzione ad una successione di capolavori che mandano la gente in visibilio:"The dark side" e "Thought contagion" (due degli episodi più riusciti dell'intero "Simulation theory") sono intervallati da "Supermassive black hole", nel quale Matthew Bellamy viene supportato ai cori da Chris Wolstenholme
E così, mentre migliaia di voci intonano "Glaciers melting in the dead of night and the superstars sucked into the super massive", ritornello che somiglia ad uno scioglilingua, Bellamy dimostra (se mai ce ne fosse stato bisogno) di essere un grande vocalist, supportandolo alla perfezione con il suo falsetto e facendolo suonare esattamente come potete ascoltarlo tutti su disco.
Un breve interludio ci porta, senza abbandonare le immagini e gli effetti futuristi, ad un glorioso passato:l'accoppiata "Bliss" e "Hysteria" rendono omaggio agli esordi del gruppo inglese, segnati da due album fondamentali come "Origin of Simmetry" e "Absolution", e l'apparente contrasto tra vecchio e moderno funziona alla grande; in realtà, entrambi i brani sembrano non aver risentito degli anni che li discostano dagli ultimi successi, ed è un'ulteriore dimostrazione di come, già all'epoca, il sound dei Muse fosse innovativo. 
La parentesi dedicata a "Dig down", di cui ho già parlato, serve a calmare le acque prima di un finale col botto:quando Bellamy attacca "Madness", inforcando i suoi occhiali iper-tecnologici ed ormai iconici, lo stadio trema e tutti cantano in coro:
 "...And now 
I have finally seen the end
And I'm 
not expecting you to care
But I 

have finally seen the light
I have finally realized
I need to love
I need to love...
".
I brividi corrono lungo la schiena, ed ancora una volta ti fanno capire quanto la musica, quella buona, sia capace di regalare emozioni:è magica, è terapeutica, ed è un'autentica manna per lo spirito.
Le emozioni non finiscono qui; non c'è tempo di riprendersi, di riordinare le idee, che i tre sul palco mettono a segno altri capolavori come "Time is running out" (anch'essa tributata da un boato sin dalle prime note), "Take a bow" e "Starlight". 
Le luci impazziscono, lo scheletro con l'elmetto fuoriesce dallo schermo di sfondo, diventa reale ed agita le mani tentando di afferrare - a ritmo di musica - qualcosa dal palco, mentre il corpo di ballerini scende dalle curve per arrivare sul parterre e lanciare palloncini tra la folla. Il concerto diventa un tripudio visivo, mentre dagli amplificatori esplode la versione originale di "Algorhythm", che pulsa bassi ed adrenalina a manetta. Un vero e proprio "muro del suono" del quale Phil Spector sarebbe orgoglioso. 
E' il tempo dei bis, con un lungo medley di cinque canzoni sparate senza sosta che vede coinvolte, tra le altre, "Stockholm Syndrome" e "New born":lo show assume le dimensioni di uno spettacolo pirotecnico, quando sul finire vengono sparati i fuochi d'artificio migliori, uno dopo l'altro.
Il botto finale è affidato a "Knights of Cydonia", con il suo intro ispirato al film "Incontri ravvicinato del terzo tipo", e per questo preannunciato da immagini tratte dal film; il brano in questione va a chiudere un concerto di altissimo profilo, e di grande impatto sia visivo che musicale.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel concerto al Palladium, nel cuore della Garbatella a Roma. Era una primavera del 2001, ed "Origin of Simmetry", il loro secondo album, era arrivato da poco nei negozi; ritrovarli in uno stadio Olimpico gremito in quasi ogni ordine di posto, con migliaia di persone di tutte le età a cantare in coro "Bliss", non poteva non fare un certo effetto.
Si dice "l'assassino torna sempre sul luogo del delitto", ed i Muse hanno tenuto fede al proverbio. Qualche anno fa, nella stessa cornice romana, il concerto per il tour dell'album "The second law" venne immortalato per essere poi pubblicato in dvd; in quell'occasione i presenti avevano già avuto modo di toccare con mano l'impianto scenografico in chiave futuristica di Bellamy, Wolstenholme ed Howard; quello stesso impianto è stato sviluppato, ampliato ed elevato a potenza per questo "Simulation Theory Tour", che si è presentato sin dalle primissime battute come un autentico circo tecnologico, mastodontico ed affascinante, capace di rubare gli occhi e lasciare tutti - ancora una volta - a bocca aperta.

(R.D.B.)
VOTO:8/10


 

lunedì 15 luglio 2019

LIVE IN CONCERT - THE WHO - MOVING ON TOUR 2019 + EDDIE VEDDER + KAISER CHIEF - WEMBLEY STADIUM 6 LUGLIO 2019


THE WHO - MOVING ON TOUR 2019
+EDDIE VEDDER+KAISER CHIEF
WEMBLEY STADIUM, 6 LUGLIO 2019


THE WHO LIVE


PREMESSA - AN "AMAZING JOURNEY"
Era un appuntamento con la storia. La storia della musica. 
Un appuntamento di quelli da non perdere, e per questo, da vivere nel migliore dei modi, nelle prime file. C'era l'occasione perfetta di sentirsi, per una notte, ed una soltanto, al centro di uno stadio storico, un autentico tempio della musica dove hanno suonato tutti i più grandi, dai Queen, ai Rolling Stones, ai Beatles, a Michael Jackson
Anche se i biglietti erano costati un occhio della testa. 
Anche se l'obiettivo da raggiungere non era esattamente dietro casa. Con l'aggiunta di una breve vacanza a Londra, metropoli sempre affascinante, c'era inoltre la possibilità di rivedere dei cari amici, e il regalo (sempre ben voluto) di una manciata di giorni di totale relax, tra musei, cene e shopping sfrenato. 
E quell'attesa.
Un'attesa dolcissima cullata per tutta la durata di quei giorni, che si respirava nell'aria, e che cresceva di ora in ora.
Era il pretesto per entrare a Wembley e dominarlo da una posizione privilegiata, quasi sotto il palco, vederlo riempirsi piano piano alle proprie spalle, sentire il calore della gente che si emozionava, che cantava dietro di noi, mentre davanti agli occhi l'esibizione degli Who (un gruppo che solo nominarlo fa soffiare aria di leggenda), snocciolava classici con l'esperienza di chi è abituato a palcoscenici del genere, dall'alto degli spartiti senza tempo composti in mezzo secolo di carriera.
Noi invece, pubblico di quello spettacolo, non ci abitueremo mai a quell'oasi di gente sognante, a quei posti che sanno di storia, a quell'immensità di significati che vivono nella memoria e che ti ritrovi davanti, nel mezzo di una sera d'estate, in tutta la loro maestosità. 
Li hai visti in tv, nelle foto su internet, tra migliaia di filmati, ma esserci...beh, esserci in prima persona è tutta un'altra cosa.

L'ANTEPRIMA - "WHO'S NEXT?"
Basta uscire dalla metropolitana di Londra, fermata "Wembley park", per rimanere immediatamente paralizzati ed affascinati. Ti trovi di fronte quello stadio, alla fine di un viale lunghissimo, da lontano enorme e possente e man mano che ci si avvicina sempre più imponente e pachidermico. 
Vedi migliaia di teste che già si inseguono, in una processione che lentamente ti porta dritto nella pancia di quello che può essere tranquillamente definito come un tempio della musica, oltre ad essere stato teatro di tanti eventi sportivi importanti. 
Tu in pochi istanti sarai una di quelle teste, e quando lo realizzi ti viene la pelle d'oca; è un momento di totale spiazzamento, che nasconde in sè, allo stesso tempo, un qualcosa di solenne.  
Poi, una volta superati i controlli, ti aggiri per i lunghi corridoi in cerca del settore segnato sul biglietto, ma ti capita di sbirciare da una delle entrate che offre l'accesso al cuore dello stadio e vedi gli spalti; quegli spalti che sai già che ti stanno aspettando. 
Aspettano te, insieme a tanti altri, per prendere vita. 
Per colorarsi. Per illuminarsi.


THE WHO LIVE MOVING ON TOUR

E' roba che ti mozza il fiato, ti fa venire i brividi sulla schiena, fa allontanare tutti i pensieri, li attenua e poi li annulla per lasciare spazio solo a quel momento, a quell'emozione. 
E poco importa se Londra, pure in piena estate, quel giorno decide di essere uggiosa e grigia. 
Poco importa se per più di metà concerto riversa la sua pioggia, leggera ma incessante, sulla tua testa. Sei parte di un insieme di gente che è lì per aggiungere un nuovo capitolo ai libri di storia della musica, assemblata grazie a quelle sette note magiche ed unita dalla stessa identica passione.
THE WHO MOVING ON TOUR 2019
Lo sanno i Kaiser Chief, che dopo Imelda May offrono un campionario dei loro più grandi successi, "Ruby" compresa, e che nobilitano un'ora di attesa con della musica di ottima fattura, cogliendo l'occasione per presentare anche un paio di canzoni nuove, tratte dall'album "Duck" di prossima uscita. Lo sa ancor di più Eddie Vedder, che dall'alto della sua umiltà percepisce la grandezza di quel santuario concertistico, e per esorcizzarne la suggestione omaggia Freddie Mercury e i Queen interpretando, con il suo immancabile ukulele, "Crazy little thing called love". 
Vedder è ormai a tutti gli effetti un grande tra i grandi, ed avrebbe tranquillamente potuto essere l'headliner della serata con i suoi Pearl Jam. Da solista, ha preferito ritagliarsi uno spazio più intimo pur di essere l'apripista dei maestri che più volte ha citato come fonte d'ispirazione (prima), e come amici (dopo).
THE WHO - MOVING ON TOUR 2019
L'accoglienza calorosa si è manifestata con un manipolo di gente accorsa subito sotto al palco a dargli il benvenuto; lui ha ripagato l'affetto della folla con poco più di un'ora di grandissima musica, offrendo uno spettacolo semplice, scarno, ma di un'intensità difficile da raccontare. E' lui, da solo, con le sue chitarre ed il quartetto d'archi (già visto al Firenze Rocks) ad avere tutto Wembley di fronte che lo supporta, lo asseconda, lo segue fino all'ultima nota di "Black". E' lui che con una voce calda e con una purezza disarmante conquista la gente con "Better man" e "Alive", ed è sempre lui, coadiuvato da Glen Hansard ad imporre le emozioni della toccante "Society" (tratta dalla colonna sonora di "Into the wild").
Chiude il suo spettacolo con il medesimo spirito sulle note di "Hard sun", concedendo l'ennesima interpretazione da brividi, e stendendo il tappeto rosso alle leggende viventi pronte a subentrare a bordo palco per alimentare, ancora una volta, la magìa artistica di quel luogo sacro.

RECENSIONE CONCERTO

IL CONCERTO - "THE KIDS ARE ALRIGHT"
Quarant'anni fa, Pete Townshend e Roger Daltrey vennero battezzati a Wembley:era il loro primo concerto nel tempio. Puntuali come un orologio, tornano nello stesso luogo dove hanno gettato le basi di una carriera da incorniciare, e che nulla ha da invidiare a quella degli altri miti della musica.
Con lo stesso spirito di allora, i due - coadiuvati da un gruppo di musicisti con i fiocchi - riempiono subito lo stadio con una selezione di brani tratti da "Tommy", definito da Rolling Stone come "la più grande opera rock di tutti i tempi". Ad accompagnare il gruppo c'è un'orchestra al gran completo, che riveste in modo del tutto appropriato il sound di "Pinball Wizard", "Amazing journey" e "We're not gonna take it/See me Feel me". Ascoltare "Who are you" in questa nuova ottica è un'esperienza del tutto nuova, mentre la voce di Daltrey sembra non risentire del tempo, che passerà pure inesorabile per tutti, ma non per lui e Townshend.
 C'è spazio anche per una canzone nuova, "Hero ground zero", che farà parte di un album annunciato già per l'estate ma che probabilmente non vedrà la luce prima dell'anno prossimo, e per "Eminence front", accolta dai miei timpani con piacere incommensurabile; è, questo, un pezzo tratto dall'album "It's hard" del 1982, non troppo pubblicizzato ed a cui non vengono riconosciuti i giusti meriti; dal vivo, suonato in modo impeccabile e del tutto inaspettato, è stato un autentico zuccherino che ha impreziosito una serata già di per sè al limite della perfezione. Townshend si presenta al pubblico vestito con un completo a mò di tuta da lavoro blu, e strappa un sorriso ai presenti chiedendo se "qualcuno ha bisogno di un idraulico". Più tardi, con la voce rotta dall'emozione, trova anche il modo di ricordare Alan Rogan, tecnico scomparso poche settimane fa che ha collaborato con la band per oltre quarant'anni. Townshend si rivolge al pubblico, dicendo che "spesso diamo la vita per scontata, ma non è così. Quando sai che non hai più così tanto tempo davanti per vivere, è bizzarro; significa tanto per me essere qui stasera, e dobbiamo essere tutti contenti di esserci".
RECENSIONE CONCERTO
Il successivo intermezzo acustico serve a far rifiatare l'orchestra, ed a regalare al pubblico la prima occasione di accendere le luci (una volta erano accendini; ora sono torce degli smartphone, benvenuti nel ventunesimo secolo). Wembley si adorna così di una cornice suggestiva e senza eguali:"Behind blue eyes" si erge ad inno, lo stadio canta in coro in un insieme sconfinato di pallini luminosi sugli spalti, e quella melodia delicata si posa sulla pelle insieme alla pioggia, accarezza l'anima, e diventa magìa.
Il ritorno del supporto orchestrale è il veicolo per introdurre l'omaggio all'altra grande opera targata The Who, "Quadrophenia". Anche "The real me" e "I'm one", quindi, beneficiano di questa nuova veste sonora, mentre la performance di "The punk and the godfather" è la giusta occasione per poter richiamare Eddie Vedder sul palco, accolto da un'altra ovazione del pubblico.
La lunga suite strumentale "The rock" viene magistralmente interpretata da tutto l'ensemble, The Who ed orchestra che si inseguono, si sovrappongono, si ribaltano, mentre la batteria di Zak Starkey picchia duro e rimbomba come un tuono in ogni angolo dello stadio.

"LOVE REIGN O'ER ME"
"The rock" è il preludio alla storia, quella vera, incommensurabile, indiscutibile; quella che rimarrà indelebile negli occhi e nei ricordi dei presenti. Lo sapevamo, o meglio, ce lo aspettavamo un pò tutti, ma in questi casi, si sa, non si è mai pronti:ti ci ritrovi dentro, con un rintocco improvviso di pianoforte. 
Quel rintocco. Unico, inimitabile.
L'incipit di "Love reign o'er me" scalda da subito il cuore, ed anche se il cappuccio ormai è zuppo e l'aria carica di umidità, il mondo reale non esiste più. Esiste solo il sogno. Il pubblico è come se fosse calamitato verso il palco. Tutti si alzano, tutti vanno a cantarla insieme ai due mostri sacri, tutti uniti; un unico blocco di persone legate dalle stesse note.
Seguendo la storia di "Quadrophenia", è impossibile scindere il significato della canzone, spiegato da Pete Townshend, dalla scena che i presenti a Wembley hanno potuto vedere:"Love reign o'er me si riferisce a un commento di Meher Baba (*), che disse che la pioggia era una benedizione di Dio; il tuono era la voce di Dio. È un'altra supplica di annegare, ma questa volta nella pioggia. [...] Jimmy (**) si arrende all'inevitabile, e sai, quando torna in paese dovrà vivere la stessa merda, stare nella stessa terribile situazione familiare e così via, ma lui si è elevato ad un nuovo livello. È ancora debole, ma c'è una forza in quella debolezza."
LIVE @ WEMBLEY
E così le strofe della canzone, sotto la pioggia londinese, quasi impercettibile al tatto e visibile solo dalle luci che illuminano il palco, assumono un valore catartico:"Only love can make it rain, the way the beach is kissed by the sea...Only love can make it rain, like the sweat of lovers layin'in the fields...". Una degna conclusione a questo momento dal grande significato poetico, doveva essere affidata ad una "rinascita" sia sul piano emozionale che energetico. E questa, non poteva che essere affidata al pezzo simbolo del gruppo inglese, "Baba O'Riley", il classico per autonomasia di quella "My generation" (per riprendere un altro brano da antologia firmato The Who) tutta dei nostri genitori e che è diventata negli anni anche un pò nostra. Dopo questo concerto, lo sarà ancora di più.
"Baba O'Riley" è una canzone immortale, che piace ancora a chi, seppur nel pieno della gioventù, sa riconoscere ed apprezzare la grande musica.
Si chiude in festa, tra chi intona "Don't cry, don't raise your eye, it's only teenage wasteland", scatenato e con le mani alzate, e chi tra le lacrime ha avuto modo di rivivere, seppur per una notte, quel periodo d'oro che sono gli anni settanta. Un periodo più spensierato, probabilmente, dove tutto era più semplice e meno frenetico ed ossessivo di quel che è la vita di oggi. Chi si porta dentro quegli anni, nascosti da un viso che presenta qualche ruga in più e qualche capello in meno, non ha potuto evitare di commuoversi almeno un pò. Ed è un pò il bello di ogni concerto:la stessa musica unisce la gente, ma ogni singolo individuo ne trae qualcosa di personale, un significato, un ricordo speciale, una persona cara, un momento indimenticabile. Un'unica melodia e tante vite che si toccano, si raccontano, si guardano allo specchio.

RECENSIONE CONCERTO WEMBLEY 2019

RECENSIONE LIVE AT WEMBLEY
EPILOGO - "SONG IS OVER"
I riflettori si abbassano, il pubblico lascia Wembley. Mi volto ancora una volta per fotografare nei miei occhi quella cornice pazzesca. La consapevolezza di aver assistito, probabilmente, ad uno dei concerti più belli della nostra vita è confermata dall'incrocio degli sguardi di chi ti passa vicino, di chi si asciuga le lacrime, di chi sorride compiaciuto e di chi indossa le magliette dedicate all'evento e non solo:perchè puoi imbatterti in t-shirt vintage con il logo The Who risalente ad un tour di vent'anni fa, fino ad arrivare a magliette dei Ramones, o persino degli Stone Roses. Un conglomerato di gusti, di passioni e di ricordi uniti sotto lo stesso cielo.
Chissà se ci sarà mai un'altra occasione per tornare in un tempio storico come questo di Wembley. 
E chissà se tra un paio di decenni ci saranno ancora artisti che meritino di calcare quel palco, e che siano all'altezza di poter celebrare una carriera di un livello tale da potersi permettere di iscrivere il proprio nome nella leggenda. 
A casa, con me, sulla scrivania da cui sto scrivendo queste righe, restano un program ed un biglietto; due piccole testimonianze di una serata unica, storica.
Una serata che nè io, nè i cinquantamila presenti, dimenticheremo tanto facilmente.
Una serata che ancora non ha smesso di emozionarci.

(R.D.B.)

VOTO:9/10






(*) Memehr Baba è un guru spirituale indiano. Pete Townshend scrisse Baba O'Riley come parte di un'opera rock chiamata Lifehouse che non ha mai completato. Voleva prendere le idee di Meher Baba e in qualche modo tradurle in musica - in particolare, usando il tipo di suoni ripetitivi e modali prodotti dal compositore minimalista Terry Riley. Il brano è stato così chiamato Baba O'Riley, in omaggio ai suoi idoli. (Fonte:Wikipedia)

(**)Jimmy è il protagonista della storia narrata nel disco (e successivo film) "Quadrophenia". Quadrophenia è un'opera rock che narra, in uno spaccato della società inglese degli anni sessanta, le vicissitudini di Jimmy, un giovane mod; Il termine "mod" (abbreviativo di "modernism") fa riferimento alla subcultura giovanile che si sviluppò a Londra nei tardi anni cinquanta e raggiunse il picco di popolarità nel decennio successivo.
La vicenda di Jimmy, ambientata tra Londra e Brighton nel 1965, descrive la perdita di tutte le certezze del protagonista e la sua delusione per il movimento mod del quale era membro. Il titolo è una variazione lessicale del termine schizofrenia utilizzato nell'accezione di disturbo dissociativo dell'identità, in modo da riflettere le quattro distinte personalità (o sbalzi d'umore) di Jimmy. Allo stesso tempo, il titolo rappresenta la personalità di ciascun membro degli Who. (Fonte:Wikipedia)