lunedì 22 aprile 2019

TRE SFUMATURE DI METALLO: IL TEATRO DEI SOGNI, UNA LUNA IMMAGINARIA E LA BESTIA DALL'INFERNO

TRE SFUMATURE DI METALLO:
IL TEATRO DEI SOGNI, UNA LUNA IMMAGINARIA E LA BESTIA DALL'INFERNO

Che fosse un anno piuttosto caldo per il metal lo si era già capito dall'annuncio del nuovo album dei Dream Theater, dal ritorno dei Within Temptation con un album nuovo di zecca e di King Diamond con un doppio live incentrato sullo storico capolavoro "Abigail".
In questo 2019, inoltre, cadono diversi anniversari di lavori seminali - sia in ambito black metal che power - e sono certo che le sorprese non mancheranno tra ristampe e nuove proposte, perchè la scena metallara è in continuo fermento; e così, mentre qualcosa di già previsto, come l'attesissimo nuovo capitolo della saga del supergruppo Avantasia annunciato mesi fa da Tobias Sammet (frontman degli Edguy ed ideatore e realizzatore del progetto) è arrivato sugli scaffali, i Cradle of Filth stanno ultimando una celebrazione per il loro capolavoro "Cruelty and the beast", ed i Rammstein preparano un ritorno sulle scene in grande stile; puntare su questi nomi vuol dire giocare sul sicuro,  ma bisogna sempre guardarsi intorno e non aver paura di ascoltare cose nuove. 
Vi garantisco che le sorprese sono sempre dietro l'angolo.
In questa rapida disamina di tre dischi appena sfornati e che hanno tutte le carte in regola per diventare dei nuovi classici del genere, troverete tre sfumature diverse di metallo:il progressive - divenuto più hard - degli storici Dream Theater, il power-fantasy del nuovo capitolo della saga Avantasia ed il pop/hard rock dei Beast in Black, una di quelle incognite che si trasformano in rivelazioni.

DREAM THEATER - DISTANCE OVER TIME (2019)
LABEL : INSIDE OUT/SONY MUSIC
FORMAT : 2 X SILVER VINYL SET


I Dream Theater non hanno bisogno di presentazioni:sono i maestri indiscussi del progressive metal, lavori come "Images and Words" e "Metropolis part II" sono entrati nella storia, e sebbene gli ultimi dischi siano stati più un'autocelebrazione degli inarrivabili e geniali virtuosismi di John Petrucci e soci che album da tramandare ai posteri, l'arrivo di un nuovo platter dopo tre anni di silenzio va sempre salutato con enorme piacere. Il fatto che James LaBrie lo abbia presentato come un'opera più "metal-oriented" dei precedenti, mi ha incuriosito non poco:e le aspettative non sono state deluse.
Molti storceranno il naso di fronte a "Distance over time", e già mi aspetto le critiche dei soliti puristi che diranno e scriveranno in ogni dove che i Theater si sono venduti perchè il disco in questione è "commerciale". In realtà, pur essendo indubbiamente più accessibile ed a prima vista meno elaborato e tecnico rispetto ai lavori del passato, resta un gran bel disco con pochi punti morti, che non rinuncia agli arcinoti virtuosismi:ascoltare un album intero dei Dream Theater non è mai semplice, ed a volte sentirne uno da cima a fondo senza pause è un lavoro piuttosto indigesto. Ebbene, sappiate che "Distance over time" invece, si assimila senza troppe fatiche, e si lascia suonare nella sua interezza con estremo piacere.
La quattordicesima opera del combo statunitense è stata registrata nell'arco di poche settimane in cui la band si è riunita, e rinchiusa giorno e notte, in un fienile situato nei sobborghi di New York; ciò è servito, a detta dei membri della band, a realizzare un disco più immediato, più diretto rispetto al concept del precedente "The astonishing", che ha richiesto ben tre anni di lavorazione.
L'album si apre con la sorprendente "Unthetered angel", capace di cambiare registro ben tre volte nel giro di pochi secondi:da un intro delicatissimo ed etereo, si arriva prima ad una sferzante scarica di chitarra elettrica per poi introdurre il mid-tempo portante dell'intero pezzo, che lancia la voce di LaBrie in un ritornello coinvolgente e immediatamente identificabile. Un suggerimento per i fans più accaniti:pare che nell'edizione "super deluxe" del disco - quella con box, cd, dvd, vinile, tappetino per il mouse e altre attraenti diavolerie - ci siano anche le piste audio di ogni singolo strumento, per "giocare" a remixare la canzone. Il singolo "Paralyzed" è una killer-track, anch'essa diretta e molto orecchiabile, senza tralasciare il giusto impatto "hard":la batteria di Mike Mangini picchia duro (sentitevi ad alto volume i primi secondi e godete) e non molla di un centimentro neanche quando LaBrie attacca la prime strofe, che si aprono in un refrain arioso e di grande effetto:
"The anger, the pressure
You're choking down your words again
Feel the nerves set in
Unspoken frustration
They see right through you
Paper thin, like the ghost within
A heart that feels no pain
Addicted to the game
Breaking beneath the strain
I am paralyzed..."
Il testo, in forte contrasto con la musica è ansioso e asfissiante, mera descrizione di un soggetto succube del sistema, che si sente sopraffatto e frustrato dalla rabbia e dalla pressione che ne derivano, fino a sentirsi invisible e paralizzato. L'assolo di Petrucci sul finire del brano è da brividi, nonostante non si discosti da tanti altri già proposti in passato; è ciò che i Dream Theater si erano prefissi per questo disco, ed è il contesto che qui fa la differenza e chi ne è l'autore. "Barstool warrior" regala i primi veri cambi di tempo tipici del prog, senza però perdere una certa accessibilità all'ascolto,  mentre "Falling into the light" è un'altra cavalcata in puro stile metal, forse il pezzo più vicino allo stile Dream Theater e quindi - probabilmente - quello che metterà d'accordo anche gli immancabili detrattori.
Tra gli highlights dell'album sono sicuramente da annoverare "At wit's end" (il primo brano composto per il disco)  e forse il più elaborato dell'intero lotto, e soprattutto la dolcissima "Out of reach". 
Per chi come me ama le ballads, certe melodie sono quanto di meglio si possa andare a pescare nella cerchia del metal d'autore, troppo spesso etichettato come "rumoroso" e cantato da "strillatori". 
"Out of reach" entra di diritto tra i migliori brani dell'intera produzione dei Theater (almeno, per il sottoscritto), vuoi per la melodia sognante, vuoi per il testo, che è una vera e propria ammissione di amore per una donna capace di elettrizzare il protagonista, che ne percepisce altresì la sofferenza dietro il sorriso e l'incapacità di ritrovare la serenità perduta:
"Sadness in her smile, your love, it's been a while
Near and far away, she chases it each day
A promise to come back, all the while, still waiting
Seems it lost its way
Out of reach, just too hard to reach
You're letting your love slip away..."
Il gran finale, se vogliamo ancor più dolce, raffinato ed elegante, è nobilitato da una riuscitissima prova vocale di LaBrie simile a quella della splendida "Through her eyes". Il disco regala anche un'ulteriore brano bonus, "Viper king", possente, carico e dal ritornello magnetico, che  rafforza e dà ancora più corpo all'intero lavoro.
"Distance over time" è quindi un lavoro gradevolissimo ed assolutamente valido, che oltre a segnare il ritorno sulla scena di un'autentica leggenda del signor metallo, ci offre un'ulteriore evoluzione della stessa, forse meno ricercata e stilizzata, ma di certo più grezza e per questo, più diretta ed avvicinabile.
VOTO: 7/10
BEST TRACKS:"UNTETHERED ANGEL", "PARALYZED", "OUT OF REACH", "VIPER KING".



TOBIAS SAMMET'S AVANTASIA - MOONGLOW (2019)
LABEL:NUCLEAR BLAST
FORMAT: 2 X MARBLED VINYL SET

Se nel corso degli anni, sin da quando è stato creato il progetto Avantasia (nome che nasce dalla fusione delle parole "Avalon" e "Fantasia", definendo così un "mondo al di là dell'immaginazione umana"), la créme de la créme del metal si è succeduta a dar man forte all'ideatore Tobias Sammet, evidentemente qualcosa di speciale, di sublime e del tutto originale in questa proposta c'è, e c'è stato anche in passato. Ho sempre visto gli Avantasia come una "nazionale", dove di volta in volta Sammet convoca i migliori artisti metal in circolazione per dar vita ad un progetto titanico, unico nel suo genere; ai microfoni ed agli strumenti si sono succeduti, in passato, membri degli Helloween, Stratovarius, Rhapsody, Angra, Within Temptation, Virgin Steele e Kamelot, e ciò ha fatto di ogni release targata Avantasia un evento imprescindibile per chi segue ed ama il metal. Presenza costante, al fianco di Sammet (come detto, già frontman degli Edguy), è quella di Hansi Kursch (leader dei Blind Guardian), che anche in questo "Moonglow" ritroviamo in più brani, sia come voce portante, sia come accompagnamento ai cori. I dischi degli Avantasia non hanno mai tradito le aspettative, e si possono comprare a scatola chiusa con l'assoluta certezza di non rimanerne delusi. Il discorso vale ovviamente anche per questo nuovo capitolo che va ad aggiungersi alla saga discografica del supergruppo:l'apertura è affidata ad una suite lunghissima (quasi dieci minuti) intitolata "Ghost in the moon", interamente interpretata da Tobias Sammet che con la sua riconoscibilissima tonalità vocale ci introduce al concept generale del disco, il cui titolo è ispirato dal fascino di Sammet per la luna.
La title track, che vede la partecipazione di Candice Night (moglie di Ritchie Blackmore e vocalist dei Blackmore's night)  ricorda pericolosamente "Moonlight shadow" di Mike Oldfield. Non si tratta di plagio, ma di citazione ed omaggio, ed il pezzo funziona alla grande risultando, alla resa dei conti, il migliore dell'intero lotto:
"A lunar light into your room
Let it carry you into the night
Moonglow, let it take you away
The road aflame
Fooling gravity, you follow the light
Moonglow, Moonglow
To the other side
All you're told to comprehend
And put in place and understand is gone
In this enchanted magic light..."
Si narra la storia di una creatura notturna che lotta per combattere il proprio disagio interiore, la propria diversità, e la mancanza di coraggio per affrontare la bellezza del mondo; si rifugia così nell'oscurità della notte, dove l'unico fascio di luce lunare la cela agli occhi delle persone e delle altre creature.
"Moonglow" tornerà più avanti a ripescare a mani basse nella musica del passato:tra le bonus tracks, infatti, spicca la cover di "Maniac", super hit di Michael Sembello che risale al 1983 ed è tratta dal film "Flashdance".
Per uno come me, che a quegli anni ottanta in musica è legato a doppio filo, un ripescaggio del genere viene visto quasi come un evento (ed infatti, ammetto di essere andato ad ascoltarla subito, tanta era la curiosità di assaggiarla in salsa metallara).
Sia chiaro che quest'opera non si limita ad attingere dal passato - come nei due pezzi sopra citati - senza proporre qualcosa di moderno ed innovativo; "Moonglow" é un disco assolutamente da non perdere, sia per la qualità sonora ed il songwriting di altissimo livello (Tobias Sammet é ormai una garanzia, non sbaglia un colpo), sia per la parata di guest star che si sono divise equamente la scena, in una selezione di pezzi di assoluto valore; prendiamo ad esempio la splendida cavalcata "Starlight", che vede al microfono Ronnie Atkins dei Pretty Maids:la voce graffiante si plasma con classe in un pezzo che merita di essere sparato a tutto volume sullo stereo, senza se e senza ma.
I due brani interpretati da Sammet con Geoff Tate (ex cantante dei Queensryche), poi, sono altri due esempi di quanto il monicker Avantasia sia capace di regalare momenti di assoluto valore:"Alchemy" gioca sulle strofe per quasi tre minuti prima di aprirsi in un ritornello possente e splendidamente riuscito, mentre "Invincible" è una toccante ballad orchestrale, talmente carica di pathos da far venire i brividi lungo la schiena. E quando succede qualcosa del genere, tanto di cappello all'autore, perchè ha già vinto a mani basse. Impossibile non citare anche "Lavender", che vede Bob Catley dei Magnum in veste di ospite:questo episodio è un altro agglomerato di stampo più hard-rock che metal, con un ritornello assassino che entra in testa sin dal primo ascolto. Michael Kiske (ex-Helloween) è un altro veterano del progetto Avantasia, e partecipa a "Requiem for a dream", uno speed-metal che ricorda da vicino certe produzioni storiche delle zucche germaniche (su tutte "Future world" e "I want out"). Ritroveremo Kiske, insieme ad Hansi Kursch, Tate, Atkins e Mike Petrozza dei Kreator in "Book of shallow", che sarebbe un pezzo come tanti altri se non fosse che a parteciparvi ci sia il gotha del metal fatto persona. Come potrete intuire, quindi, di carne al fuoco ce n'è abbastanza da spellarsi le mani e tra tanto ben di dio, diventa difficile persino scegliere un altro brano tra i preferiti in assoluto oltre alla title track.
Per di più, con questa nuova fatica di Sammet, avrete l'occasione di portarvi a casa anche una splendida copertina - chiaro omaggio ai cartoni animati di Tim Burton - e nel caso siate vinil-maniaci come chi sta scrivendo questa recensione, potrete andare a pescare un meraviglioso doppio disco verde marmorizzato (quello in foto) che fa la sua sporca figura sul piatto, e che è solo una variante tra le tante proposte in edizione limitata.
VOTO: 8/10
BEST TRACKS:"MOONGLOW", "INVINCIBLE", "STARLIGHT", "LAVENDER", "GHOST IN THE MOON", "ALCHEMY".



BEAST IN BLACK - FROM HELL WITH LOVE (2019)
LABEL:NUCLEAR BLAST
FORMAT: 2 X WHITE VINYL

Spesso, faccio una passeggiata su youtube per vedere i video appena pubblicati, e tenermi aggiornato sulle uscite discografiche in arrivo. Seguo diversi canali, ed uno dei miei preferiti é senz'altro quello della Nuclear Blast, casa discografica teutonica interamente dedicata alla distribuzione di prodotti metal ed autentica miniera d'oro per chi cerca un pó di sana musica heavy. Capita, così, di imbattersi anche in gruppi mai sentiti prima e di scoprire novità allettanti (non sempre va così, spesso si becca anche robetta mediocre), ed é in questo modo che sono andato a scovare questi Beast in Black.
Ció che mi ha incuriosito é stata la presenza scenica del frontman (pelato e con la barba) ed il titolo del video "From hell with love" - che é anche quello del disco - un contrasto di significati che lasciava presagire una certa accessibilità sonora, più classica ed orecchiabile, per intenderci, e non black, death o trash metal.
Certo, i primi secondi di elettronica da videogame vintage non me li sarei mai aspettati:quel tappeto, che a mio avviso é ispirato (deve esserlo per forza) da qualche vecchio gioco dell'Amiga o del Nintendo, viene dopo 4/4 immediatamente doppiato da una possente chitarra di chiaro stampo hard-rock, che completa il tuffo negli anni ottanta. Strofe e ritornello sono terribilmente orecchiabili - roba che il pop attuale si sogna, davvero - ed il mio pensiero é stato subito chiaro:se questi passassero in radio spaccherebbero di brutto.
Mi é sembrato quindi d'obbligo andare ad ascoltare l'album, convinto di trovarmi in un ambiente a me consono:vado sempre a cercare melodia anche negli act più estremi, e la mia impressione non é stata smentita. Se i Ghost sono commerciali e rasentano i confini AOR e pop, beh, lasciatemelo dire:questi Beast in Black quelle barriere addirittura le abbattono. "From hell with love" é una commistione di tante entità musicali, che in un modo o nell'altro funzionano e rendono il lavoro nel complesso molto più che accettabile, tanto da convincermi a non farlo mancare nella mia collezione.
Prendiamo "Die to the blade", altro esempio completamente ispirato agli anni ottanta:sembra di trovarsi al cospetto di una colonna sonora di quel periodo d'oro, da Top Gun (l'autore della quale è il mitico Harold Faltermeyer, che curò anche le musiche di Beverly Hills Cop), a "La storia infinita" (di Giorgio Moroder), per arrivare al già citato "Flashdance" (Avantasia docet, e non può essere un caso neanche quello). L'omaggio ad uno stile musicale retrò è palese, ed in piena epoca revival - dalla musica fino alle serie tv ("Stranger things" vi dice qualcosa?) la proposta dei Beast in Black non fa altro che cavalcare l'onda del ripescaggio nostalgico. Certo, il ritornello ricorda paurosamente quello di "Blood red sandman" dei Lordi e ciò può indurre a pensare che il gruppo finlandese sia anche furbetto e fin troppo scaltro. Però cattura sin dalle prime note, e prima ancora che finisca la canzone (al primo ascolto, eh) ti ritrovi a fischiettarla, come se fosse un grande classico già edito in un'altra epoca.
"From hell with love" è una proposta tamarra, se vogliamo, in bilico tra elettronica e hard rock dal forte indirizzo commerciale che punta tutto sul primo impatto; probabilmente fra due mesi, sovrastato da lavori di ben altra portata e longevità, questo platter finirà nel dimenticatoio, come uno schiacciapensieri (con cui tutti, da fanciulli, abbiamo avuto a che fare) al cospetto di un Megadrive , o di un Super Nintendo (per rimanere in tema di rievocazione ottantiana).
Intanto, però, eccolo lì in mezzo agli altri dischi del sottoscritto, in versione vinile bianco (avevate dubbi che non lo avrei cercato in versione colorata?) che inanella una serie di solchi facili da digerire come un bicchiere d'acqua. Cosa non di poco conto:se vi sparate in cuffia qualche brano di questo disco mentre fate jogging, o in palestra, è garantito:spacca di brutto. A dar ulteriore manforte a questo pensiero, sappiate che nel disco troverete persino una copver di "No easy way out". Sì, proprio quella di Robert Tepper. L'avrete ascoltata un milione di volte, mentre Rocky aspettando l'imminente match con Ivan Drago, monta in macchina ed immagina il viso del suo avversario nello specchietto retrovisore.
Morale della favola:se vi piace il metal iper-melodico, concedetegli una possibilità. 
Se siete metallari fino all'osso, elitari, integralisti, sporchi, brutti, cattivi, con la barba lunga e la stessa maglietta dei Megadeth da una settimana, lasciate perdere. Ma non definite gruppi come questi "merda", perché stanno portando all'intero movimento una visibilità che potrebbero renderlo più mainstream e non solo di nicchia.
E la visibilità, per un filone troppo spesso sottovalutato, non é per forza un male.
VOTO: 6,5/10
BEST TRACKS:"FROM HELL WITH LOVE", "DIE BY THE BLADE", "KILLED BY DEATH", "OCEANDEEP".

venerdì 12 aprile 2019

RECENSIONE:BILLIE EILISH - WHEN WE ALL FALL ASLEEP WHERE DO WE GO? (2019)

BILLIE EILISH - WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO? (2019)
LABEL:DARKROOM/INTERSCOPE RECORDS
FORMAT:LP ALBUM LIMITED PALE YELLOW VINYL





Stava accadendo ancora una volta:il pop tinto di rosa si stava ripiegando su sè stesso, seguendo uno schema ripetitivo fin troppo ricalcato negli ultimi anni:nessuna sprizzata di novità, di qualcosa di innovativo, di mai sentito prima.
Tranne qualche rara eccezione che aveva fatto ben sperare, il trend non è cambiato dall'ultima volta che avevo affrontato questo discorso. Le nuove sensazioni come Ariana Grande, Sia, Halsey ci hanno provato, ma nonostante qualche singolo indovinato, l'ascolto degli album si è rivelato poi piatto, inconsistente, in alcuni frangenti persino desolante. Soprattutto la Grande ha provato con due album nel giro di pochi mesi a rinfrescare la sua proposta, ma si è fatta tentare troppo da un R&B spoglio che non le appartiene del tutto. Star consumate come Mariah Carey hanno toppato il rientro sulle scene (state alla larga dall'ultimo "Caution", è un consiglio da amico), mentre Lady GaGa, che era stata l'ultimo grande talento anche in termini di innovazione, si è data al cinema e nella colonna sonora di "A star is born" - peraltro bellissima - si è per forza di cose ripulita sia nell'immagine sia nella proposta musicale, deviando sull'acustico e sul country; Madonna tornerà a breve (speriamo con un lavoro di nuovo all'altezza) ma resta sempre un'incognita, e Taylor Swift non ha mai convinto fino in fondo. E poi, Katy Perry sforna torte e ciambelle squisite ma l'ultimo "Witness" di squisito aveva ben poco,  mentre Britney Spears e Miley Cyrus sono ferme (e non è che ci si aspetti chissà quale ventata di stravolgimenti dai loro prodotti). L'ultimo disco di Dido, poi, per quanto sia apprezzabile, dopo diversi ascolti somiglia sempre più ad un compitino ben fatto e nient'altro di più.
In uno sguardo d'insieme, il panorama attuale delle artisti femminili era quindi piuttosto statico, stantìo, involuto. O almeno, lo era prima di qualche settimana fa; prima cioè, dell'arrivo sugli scaffali dei negozi di "When we all fall asleep, where do we go?", il disco con il quale Billie Eilish le ha messe in riga tutte.
Ci voleva una diciassettenne (sì, avete letto bene) un pò scazzata, dal look un pò emo ed un pò skater, con una voce normalissima - spesso sussurrata, non aspettatevi quindi gorgheggi da standing ovation - ma allo stesso tempo particolare, a tratti nevrotica e piena di tic curiosissimi, per dare una rinfrescata a quel panorama ristagnante e per settare un nuovo standard di riferimento.
Mentre scrivo, non ho ancora digerito appieno il suo vero album d'esordio (prima di questo, ci sono stati qualche singolo, un E.P. ed un paio di brani prestati a colonne sonore), ci sono voluti almeno tre ascolti per iniziare ad apprezzarlo e per capire che già così aveva fatto centro; perchè se un disco catalizza la tua attenzione tanto da doverlo andare a prendere una, due, tre volte, deve per forza nascondere un qualcosa di fascinoso che ha colpito il tuo immaginario. 
E così, in questo momento ho un vinile nuovo di zecca firmato Billie Eilish vicino al giradischi. Vediamo, dunque, cosa rende speciale il lavoro della giovanissima cantautrice statunitense.
Per farlo partiamo dal nome del fratello di Billie, che è lo "sceneggiatore" artistico dietro le quinte dell'intero progetto; Finneas O'Connell è cantante e leader della band The Slightlys, ed ha prodotto e scritto tutti i pezzi che sono andati a comporre questo "When we all fall asleep". E' innegabile che ci sia molto del suo talento nel prodotto finale, che come già detto è spiazzante e disorientante sin dalle prime battute:dopo un breve intro, l'album si apre con uno dei pezzi forse più accessibili dell'intero lotto, quella "Bad guy" che si presenta con un basso martellante e sordo sul quale si posa la voce roca e sfiatata della Eilish; il pezzo - guarnito con un arrangiamento minimalista - assume nel giro di pochi secondi i contorni di una nenia pop di grande impatto, offrendo allo stesso tempo qualcosa di unico, di mai sentito prima, specie nella parte finale, dove cambia completamente registro e ritmica. 
Video e singolo della canzone sono stati lanciati in contemporanea all'uscita del disco, e scommettere sul suo successo non è un'eresia, bensì una certezza.
"When we all fall asleep" ha diversi assi nella manica; quello dal titolo più strano, "Ilomilo", è un'alchimia di musica elettronica e genialità:un tappeto orecchiabile e semplicissimo che ti manda in pappa il cervello, tanto che dopo neanche due ascolti già ti ritrovi a cantarla. Sorprende anche il songwriting, incentrato sui dubbi adolescenziali, tra incertezze (in quasi tutti i pezzi della Eilish c'è una domanda - e domanda stessa è il titolo del disco), malizia e introspezione; nulla però è scontato, ed anche le porzioni di testo più scanzonate e leggere nascondono un significato più o meno profondo. E così, tornando a "Ilomilo", il doppio senso a sfondo erotico delle prime strofe "Told you not to worry, but maybe it's a lie, honey what's your hurry? Why don't you stay inside?" ("Ti ho detto di non preoccuparti, ma forse è una bugia, dolcezza perchè vai di fretta? Perchè non resti dentro?") si trasforma in paura di essere abbandonati ("Where did you go? I should know but it's cold and I don't wanna be lonely" - "Dove sei stato? Dovrei saperlo ma fa freddo e non voglio restare sola"). 
Autentica perla capace di ergersi una spanna sopra tutto il resto del lavoro è "I love you", una meravigliosa canzone d'amore per pianoforte cantata con Finneas, ipnotica ed emozionante:è una riflessione su un sentimento profondo, del quale si percepisce la grandezza perchè capace di scrutare nell'anima dell'altro e travolgere i sensi, lasciando un senso di profondo turbamento e fragilità. 
Ad un inizio dimesso, cantato con tono quasi riflessivo si contrappone una crescita progressiva che finisce per sbocciare in un ritornello letteralmente incantevole, da pelle d'oca:
"It's not true, tell me I've been lied to
Cryin' isn't like you
What the hell did I do?
Never been the type to
Let someone see right through
Maybe won't you take it back
Say you were trying to make me laugh
And nothing has to change today
You didn't mean to say I love you
I love you
And I don't want to..."
E quando più avanti lo stesso giro di note viene riproposto con un accompagnamento d'archi intenso e commovente, non si può far altro che rimanere impietriti, con gli occhi sbarrati, ad ascoltare quella dolce litanìa:una reazione così equivale ad un applauso a scena aperta, a dimostrazione di come, a volte, basti davvero poco per trovare le coordinate giuste di un qualcosa che arrivi dritto al cuore. Pezzi di tale levatura sono rari, ma una volta scovati va riconosciuto loro il giusto merito.
Che Billie Eilish fosse capace di interpretare a meraviglia delle ballate suggestive, del resto, si era già intuito con "Lovely" (cantata con Khalid ed inserita nella colonna sonora di "Thirteen Reasons Why", e se non la avete ancora ascoltata, fatelo), ma qui, signori, la ragazza ha alzato il tiro in maniera paurosa. Chapeau.
La sorpresa, se vogliamo, ancora più piacevole è che l'album non si regge solo su questi pochi pezzi che ho appena citato. E così trovano spazio anche episodi più lineari e meno articolati ("All the good girls go to hell" strizza l'occhio agli ultimi Coldplay, senza mai perdere quel tocco di originalità tutto della Eilish), mentre "My strange addiction" riprende in modo del tutto personale certe atmosfere R&B ampiamente radiofoniche, e non mi meraviglierei di vederla estratta tra i prossimi singoli.
"You should see me in a crown", pubblicata qualche settimana prima dell'arrivo di questo album su spotify, itunes e youtube, è un altro esempio di hip-hop amalgamato alla musica elettronica ed alternative (qualcosa che potrebbe venire da Tricky, per dire, o persino dai Massive Attack); è un pezzo cupo, oppressivo, splendidamente architettato ed arrangiato da Finneas dietro la consolle. 
La sperimentazione raggiunge il suo picco massimo in "8" (una sorta di country aperto dalla voce di Billie che imita quella di una bambina) e in "Wish you were gay" che pur con degli inserti di chitarra acustica e il suo andamento da musica da cabaret, riesce a dipanarsi con naturalezza in un impianto di elettro-hip-hop infiocchettato con maestria. Non è e non sarà la mia canzone preferita del disco, ma buttata lì in mezzo fa la sua sporca figura e si lascia ascoltare.
Al momento di perfezionare e correggere questa recensione, "When we all fall asleep, where do we go?" è entrato direttamente al primo posto della classifica di Billboard oltre a guadagnarsi anche la palma di vinile più venduto della settimana, e questo è un dato che fa riflettere:considerato che i fans di Billie Eilish fino ad oggi erano prevalentemente degli adolescenti, veder svettare il suo disco in  quella classifica è un segno indicativo di come la sua fetta di pubblico si stia indubbiamente ampliando, ma soprattutto dimostra come le nuove generazioni - anche grazie a dischi come questo - si stiano ulteriormente avvicinando al supporto in vinile, contribuendo alla sua rinascita; se anche i ragazzi di oggi consolideranno l'abitudine di entrare in un negozio in cerca di quel pezzo di plastica tondo con i solchi, il futuro del nostro amatissimo 33 giri non può che essere roseo. 
E l'industria discografica ringrazia.
Appuntatevi il nome di Billie Eilish, quindi, perchè ne sentirete parlare spesso nei prossimi tempi. 
Per quel che concerne questo lavoro, ho il sospetto che farà discutere, e sono certo che una certa frangia di puristi non lo sopporterà - o forse, non sopporterà lei - ma per poter offrire un giudizio lucido e sensato, bisogna scrollarsi da dosso quella sensazione che questa ragazza sia un prodotto meramente per bimbi minchia, ed allonatanarsi da quel voler per forza distinguere, raffrontare e catalogare i generi musicali. 
Perciò sgombrate la mente, godetevi la musica e fatevene una ragione:"When we all fall asleep, where do we go?" è un album rivelatore, completo, capace di far ballare, di spiazzare, a tratti persino di emozionare. 
Vi sembra poco?

(R.D.B.)

VOTO:8,5/10
BEST TRACKS:"I LOVE YOU", "BAD GUY", "ILOMILO", "BURY A FRIEND", "ALL THE GOOD GIRLS GO TO HELL", "MY STRANGE ADDICTION".


lunedì 1 aprile 2019

RECENSIONE:ALPHAVILLE - FOREVER YOUNG 35TH ANNIVERSARY (2019)


ALPHAVILLE - FOREVER YOUNG 
35TH ANNIVERSARY (2019)
FORMAT:BOXSET 4 CD+LP+PHOTOBOOK
LABEL:RHINO/WARNER BROS




In un'epoca dove quel che era risulta essere migliore di quel che è, dare uno sguardo al passato non è un peccato, ma paradossalmente è un voler andare avanti, un evolversi, un riallacciare i fili con le proprie origini per guardare con maggior fiducia al domani. Per questo, citando un film-icona della nostra adolescenza come "Ritorno al futuro", è necessario scomodare Doc Brown e la sua Delorian e settare il 1984 come data di riferimento per il viaggio a ritroso di oggi:era, quello, l'anno in cui sugli scaffali di dischi arrivava "Forever young" ("Per sempre giovane"), album d'esordio del gruppo synth-pop tedesco Alphaville. Era l'epoca dei vinili a 33 giri e delle cassette audio, formati di riferimento che oggi - guarda caso - stanno ritornando in auge, riprendendosi anno dopo anno le fette di mercato perse a causa della tecnologia. Ed erano anni in cui chi vi scrive era ancora un bimbetto di sette anni, e l'unica musica che per lui contava veramente era quella delle sigle dei cartoni animati; più importanti erano di certo un Super Santos e il Commodore 64.
Per festeggiare il trentacinquesimo anniversario del disco, i fondatori del gruppo Marian Gold (voce) e Bernhard Lloyd (tastiere ed elettronica) si sono presi la briga di rimasterizzare la canzoni una per una partendo dai nastri originali, ed hanno poi impreziosito questa ristampa aggiungendo ben due cd, il primo dei quali contiene esclusivamente dei remix (tutti dell'epoca, nessuno stravolgimento attuale), mentre l'altro è interamente composto da versioni demo e outtakes provenienti dalle registrazioni di quegli anni, offrendoci così la possibilità di sentire per la prima volta come erano, nel loro stato embrionale, i brani presenti sul disco.
Non paghi del già eccellente lavoro, c'è anche una deliziosa ciliegina sulla torta sotto forma di dvd, che rende questa ristampa ancor più completa e, se vogliamo, definitiva:in un colpo solo ci portiamo a casa anche i video di quattro singoli estratti dall'album ed un documentario che ripercorre il processo di lavorazione dello stesso, con i due a raccontare aneddoti e curiosità mentre scorrono immagini di archivio.
"Forever young" non è un capolavoro di disco, parliamoci chiaro. E', però, un album di ottimo livello (soprattutto se si considera che era il primo in assoluto per gli Alphaville) che assume un'importanza tutta sua nel contesto europeo dei favolosi e sempre compianti anni ottanta, quelli del pop con i lustrini, delle superstar (Madonna, Michael Jackson, Prince), della nascita dei videoclip e di MTV, e della fusione dei generi musicali in una ritrovata libertà di espressione.
E allora, perchè non fare un tuffo in quel passato e rinfrescarci un pochino la memoria?  
Erano quelli, anni in cui i bambini facevano colazione con il Nesquik o in alternativa con la polvere di malto ed orzo che si chiamava "Sprint":ve la ricordate? 
E c'erano anche le merende con le sorpresine del Mulino Bianco, la girella Motta ed i succhi di frutta Billy in brick di cartone con tanto di cannuccia, da portare ovunque.
In quel periodo, possedere un disco in vinile era un must, i 45 giri si potevano suonare su un "mangiadisco" colorato - che faceva sparire il suddetto supporto dentro la sua fessura e come per magia restituiva il suono - e sul mercato si affacciavano i primi walkman con componenti in metallo (poi sostituite, ahimè, da altre in plastica). Il cd era solamente un formato sperimentale, ma il mondo era un vulcano in eruzione carico di idee, innovazioni, cambiamenti epocali. 
La musica non poteva esimersi da questa continua evoluzione, e non a caso quel decennio è considerato tra i più floridi in quanto a proposte:se noi della generazione dai trent'anni in sù vogliamo una cartolina musicale nostalgica, quasi sempre andiamo ad attingere dal repertorio ottantiano. Ed è da quel repertorio, che ormai ha il dono dell'immortalità, che provengono pepite d'oro dal valore incommensurabile come "Forever young", "Big in Japan" e "Sounds like a melody".
In particolare la prima, passata quasi in secondo piano al momento dell'uscita senza diventare una hit da classifica, a distanza di anni è diventata un inno generazionale, il manifesto di chi sente più "suoi" quegli anni degli attuali, e che percepisce quei ricordi in modo vivido come se fosse storia recente. E' un dato di fatto che la nostra generazione porti con sè una malinconia speciale, fatta di anni di stabilità economica, di benessere e crescita commerciale:realtà ben diverse, ne converrete, da quelle vissute dai nostri genitori e dai nostri nonni, la cui gioventù è stata contaminata da guerre e periodi di recessione. E' anche per questo che ultimamente stiamo assistendo ad un ritorno al vintage e ad un crescente gusto retrò incentrato, in particolar modo, su quel decennio; una sorta di continua celebrazione che  non accenna a fermarsi, ma si autoalimenta in diversi campi, dalla tv, al cinema, ai fumetti fino ad arrivare, ovviamente, alla musica.
In diversi passaggi, la canzone che dà il titolo al disco tratta proprio di questo; "The music's for the sad man" ("la musica è per l'uomo triste") è la strofa più esemplificativa dell'importanza che hanno i ricordi nel nostro essere adulti di oggi con lo spirito adolescenziale di una volta, lo stesso che sta muovendo le mie dita su questa tastiera ricordando il tragitto che mi portava da casa a scuola con uno zaino Invicta sulle spalle, che mi riporta alla memoria anche i pomeriggi a giocare con le Crystal Ball. "Youth's like diamond in the sun, and diamonds are forever" ("la gioventù è come i diamanti al sole, ed i diamanti sono per sempre") è la formula che mette in moto l'atto nostalgico, ed è una questione di sfumature di sensibilità:c'è chi si limita a richiamare alla mente certi momenti con un sorriso e magari un tuffo al cuore, e chi come il sottoscritto va oltre, circondandosi di tutto ciò che materialmente possa permettere di "toccare" quel delizioso passato. Chiamateci moderni Peter Pan, bimbi non cresciuti, ma a mio avviso quello spirito è prezioso come l'aria, ed in certi frangenti persino necessario per sopportare l'età adulta con le sue incertezze, con le sue problematiche, con le sue regole:
"Some are like water, some are like the heat
Some are a melody and some are the beat
Sooner or later, they all will be gone
Why don't they stay young?
It's so hard to get old without a cause
I don't want to perish like a fading horse
Youth's like diamonds in the sun
And diamonds are forever
So many adventures couldn't happen today
So many songs we forgot to play
So many dreams swinging out of the blue
We let the m come true..."
Quanta poesia in queste strofe, e quanta amara delicatezza nel dipingere il trascorrere incessante del tempo! "Forever young" si consegna alla memoria con una delle frasi più belle che io abbia mai ascoltato in una canzone, "Let us die young or let us live forever" ("lasciamoci morire giovani o lasciamoci vivere per sempre"), dipanandosi su una base elettronica talmente affascinante da sfiorare come una piuma l'animo di chi è all'ascolto, e tanto basta per vestirlo di quella stessa dolce nostalgia che si prova quando ritroviamo qualche vecchia fotografia nei meandri di un cassetto. L'esplosione sul finale dei violini sintetizzati, poi, rende il tutto ancor più suggestivo ed emozionante, a degna chiusura di un pezzo di notevole fattura.
Basterebbero già queste note a dare un senso all'opera nel suo complesso, eppure il primo lavoro degli Alphaville non è tutto qui, e regala altri spunti validi. Prima di tutto, è necessario sottolineare come il synth-pop del gruppo tedesco sia sì ragionato, ma non costruito a tavolino, e su di esso la voce di Gold riesce a muoversi con naturalezza su più livelli di tonalità (quasi tutte medio/alte); inoltre va evidenziato come le tessiture sonore, per quanto caratteristiche dell'epoca, non risultino mai banali. 
Un tipico esempio di questo livello qualitativo si può avere con "Big in Japan", il singolo che lanciò l'intero progetto e che riscosse più successo rispetto agli altri estratti:l'apertura magnificente fa da apripista ad un tappeto musicale avvolgente ed elegante, un prototipo sofisticato di brano da ballare, tipico del periodo, che tanto piaceva sia la pubblico che alle radio, e che si poteva pescare facilmente nelle compilation storiche dell'epoca come "Bimbomix" o "Festivalbar".
Con queste note è in arrivo un'altra secchiata di ricordi, perchè vi assicuro che far partire in cuffia brani così mentre si cammina per la città, permette alla vostra memoria di salire veramente su una macchina del tempo virtuale:e così il mondo riprende i colori cangianti di quegli anni in cui andavano di moda le Reebok Pump, in cui i bimbi imparavano a leggere con il Grillo Parlante mentre i più grandicelli giocavano con i Masters, le Barbie, l'Allegro Chirurgo e Gira la Moda.
Ad un'analisi attenta, certi ricordi d'infanzia sbattono un pochino con il reale significato della canzone, che parla di un uomo appena uscito da una storia sentimentale e deciso a "tornare in pista" con determinazione ("here's my comeback on the road again"). Un uomo diventato fatalista su ciò che gli succederà e ciò chi incontrerà ("things will happen while they can") e che nel frattempo non si fa scrupolo di soddisfare i suoi piaceri sessuali in quello che sembra un bordello legalizzato ("pay then I'll sleep by your side").
Il testo è abbastanza crudo e diretto, ma all'epoca chi si preoccupava di ciò che dicevano le canzoni straniere? L'inglese non era ancora pane per tutti, e di certo non era fondamentale come lo è diventato oggi. Quei pochi che analizzavano il senso dei testi, si sarebbero accorti di quanto le lyrics di "Big in Japan" fossero in parte collegate a quelle di un altro brano famosissimo contenuto nell'album; "Sounds like a melody" è certamente molto più glam, ammaliante e romantica di "Big in Japan", ma presenta altre allusioni erotiche e sensuali, stavolta rivolte ad una compagna di ballo capace di accendere l'erotismo e la passione con le sue movenze:
"It's a trick of my mind
Two faces bathing in the screenlight
She's so soft and warm in my arms
I tune into the scene
My hands are resting on her shoulders
When we're dancing for a while
Oh we're moving, we're falling
We step into the fire
By the hour of the wolf in a midnight dream..."
Il pezzo è un mid-tempo per metà della sua durata. Dopo tre minuti, arriva un'improvvisa accelerazione che lo rende originalissimo ed ancor più ballabile, con i synth impazziti che ingoiano note di chiara derivazione classica (non a caso, i violini sono stati suonati dalla Deutsche Opera di Berlino), a dimostrazione che le partiture di musica, anche in una proposta elettronica e smaccatamente pop, non erano sconosciute agli Alphaville.
L'esecuzione viene sfumata nella versione originale, ma in nostro soccorso arriva il secondo cd di remix incluso nel box, che ci offre l'ascolto di "Sounds like a melody" nella sua versione estesa e completa (di circa sette minuti).
E' inutile sottolineare quante monetine da duecento lire abbia raccolto questo brano nei jukebox di un pò tutta Europa, oltre a fungere da ulteriore traino a "Forever young" e contribuendo ad un successo da due milioni di copie, vendute quasi esclusivamente nel vecchio continente; nelle classifiche degli States non riuscì a riscuotere lo stesso successo, forse a causa dell'enorme concorrenza e di una promozione non esattamente mirata ad un'immediata esportazione degli Alphaville oltreoceano.
Le altre proposte di elettro-pop dell'album, pur risultando di buona qualità, non riescono a raggiungere gli standard altissimi dei tre singoli di cui sopra; "The jet set" e "A victory of love" vennero anch'essi estratti come singoli per continuare a trainare il disco, ma ebbero un modesto riscontro e niente più. Anche "Summer in Berlin" e "Lies" sono pezzi pregevoli che ancora oggi si ripescano con piacere, vuoi per quella patina sonora tipica degli anni ottanta, vuoi per il chiaro indirizzo "easy-listening":canzoni di questo tipo non richiedono particolari attenzioni, le lasci suonare in sottofondo mentre fai altre cose e sono sempre piacevoli ed utili a "riempire" la stanza; in un contesto come quello di "Forever young", completano il quadro di un album notevole che, risultati alla mano, resterà di gran lunga il migliore dell'intera carriera del gruppo teutonico, che non riuscirà più a bissare le vette raggiunte con questo esordio.
L'utilità di ristampe e riedizioni di dischi che hanno in qualche modo caratterizzato gli anni ottanta, è quella di poter possedere uno spicchio tangibile di vita che tanto ci ha dato e che porteremo sempre nel cuore.
Ricordare episodi e luoghi della nostra vita aiuta anche a rievocare quella parte spensierata del nostro essere, ormai imbottigliato in un corpo da adulto che ha perso la sua innocenza, che è vincolato e stressato da una realtà impazzita ed in balìa dei social network, e dove sempre più spesso si agisce da automi lobotomizzati dalla tecnologia.
I bambini di oggi reclamano uno smartphone, e già in tenera età sanno usarlo come e meglio di noi, che invece cercavamo di completare gli album di figurine della Panini, giocavamo a nascondino ed aspettavamo ogni pomeriggio Bim Bum Bam.
Non ho idea di come ricorderanno al loro infanzia le nuove generazioni, ma di una cosa sono certo:preservare il bimbo che è in noi, al giorno d'oggi, è necessario. 
Perchè in certe giornate nere, scoprirsi a sorridere davanti ad un pupazzetto di E.T., a distrarsi davanti ad un Topolino che avremo già letto dieci volte e andare a ripescare quel vecchio disco che ci ricorda chi siamo e chi eravamo, è terapeutico.
Momenti così servono a riconciliarsi con il mondo, ed a far sì che quel diamante chiamato "gioventù" (per dirla al modo degli Alphaville) continui a risplendere al sole.
Ed un diamante, si sa, è per sempre.

VOTO: 7,5/10
BEST TRACKS:"FOREVER YOUNG", "BIG IN JAPAN", "SOUNDS LIKE A MELODY", "SUMMER IN BERLIN".

(R.D.B.)