mercoledì 4 settembre 2019

ESTATE 2019:DIECI ISTANTANEE IN RIVA AL MARE

ESTATE 2019:
DIECI ISTANTANEE IN RIVA AL MARE



Inutile perdersi in fiumi di parole:lo sanno pure i sassi che d'estate si è portati ad ascoltare più musica del solito, e che ognuno di noi porta nel cuore il proprio tormentone, anno dopo anno, legato spesso a dei ricordi speciali. 
Come ben sapete, io non mi limito a sentire solo una canzone. Non posso. Non ci riesco. E così, ecco una delle mie amatissime playlist con una decina di brani tra quelli che ho ascoltato di più quest'anno, e che sono stati la colonna sonora delle mie vacanze.



BRING ME THE HORIZON - GO TO HELL FOR HEAVEN'S SAKE
Se dovessi decretare il pezzo più gettonato in assoluto nel mio lettore mp3, non esiterei ad eleggere questo dei Bring Me The Horizon. Dirompente, incazzoso e fracassa-timpani quanto basta, "Go to hell, for heaven's sake" racchiude in sè anche una buona dose di melodia (dovuta alla tastiera magnetica ed evocativa) e a degli stacchi strumentali di prim'ordine, che ammorbidiscono il brano, lo rendono vibrante ed a tratti persino atmosferico. Suonava nelle mie cuffie nei tragitti da casa alla spiaggia, nelle passeggiate in riva al mare, di giorno, di notte, fino a rimbalzare nella testa anche quando non lo stavo ascoltando. Per quanto tirato e rumoroso, "Go to hell" ha la forza melodica di un vero e proprio hit radiofonico, che emerge con maggiore evidenza nel ritornello:"I'm burning down every bridge we made, I'll watch you choke on the hearts you break, I'm bleeding out every word you said, Go to hell for heaven's sake ("Sto bruciando ogni ponte che abbiamo costruito, ti guarderò soffocare su tutti i cuori che hai spezzato, sto sanguinando ogni singola parola che hai detto, va all'inferno per l'amor del cielo...").
Il gruppo britannico è stato per me una recentissima - ed assai piacevole - scoperta, e grazie al best of "2004-2013" uscito qualche anno fa, ho avuto modo di disporre di una carrellata riassuntiva della loro produzione che ha ulteriormente ampliato gli orizzonti dell'alternative/emo rock di mia conoscenza.



WITHIN TEMPTATION - HOLY GROUND
Gli olandesi guidati dalla splendida voce di Sharon Den Adel non sono certo una novità nei miei ascolti; li ho visti dal vivo diversi anni fa, ed a conti fatti, tra cd e vinili posso dire di avere praticamente l'intera discografia del gruppo. Nonostante l'ultimo "Resist" mi abbia affascinato meno dei precedenti lavori, va riconosciuto quanto questa "Holy ground" sia capace di entrarti piano piano nelle corde fino a conquistarti, ascolto dopo ascolto. Per farla breve, non ha l'immediatezza del singolo di lancio del disco ("The reckoning"), ma offre un perfetto mix tra energia e leggiadria; A caratterizzare il pezzo sono le strofe cantate dalla Den Adel, con un tono quasi di strafottenza mista a delusione :"It's been a while since I told you that I hate you, you've turned the truth inside out; Don't turn your back when I face you, or I'll make you, you turned my world upside down..." ("E' già da un pò che ti ho detto che ti odio, hai rivoltato la verità a tuo piacimento; non voltarti mentre ti affronto, o te ne pentirai, hai ribaltato il mio mondo..."). Sebbene sul piano strettamente musicale si parli di due stili completamente diversi, è curiosa - e casuale, giuro - la somiglianza nel significato del testo con quello dei Bring Me The Horizon:si racconta, con una serie di parole taglienti, l'amarezza nei confronti di qualcuno, dovuta a bugie e tradimenti, come se la stessa storia venisse analizzata da due punti di vista diversi, ma con lo stesso pensiero di fondo e con lo stesso tono di sfida, disincantato ed amareggiato.



ZEDD FEAT.KATY PERRY - 365
Ok, se non fossi un patito delle compilation inglesi "Now that's what I call music", probabilmente questa canzoncina leggera e prettamente estiva mi sarebbe sfuggita. Magari l'avrei scoperta più in là, ecco. Nonostante un ascolto veloce della compilation per sceglierne i brani migliori proprio prima di partire, questa melodia fresca come una granita al limone mi è ha colpito sin dalle prime battute; il fatto che a cantarla per intero sia Katy Perry ha ulteriormente innalzato il grado di apprezzamento. Di tutti le canzoni che vedete elencate in questo posto, "365" è senza dubbio il brano più disimpegnato e divertente, ma anche il più scontato e banale sotto il profilo compositivo; molto è dovuto alla base che si ispira chiaramente a qualcosa che si avvicina molto al reggaeton (sentita una, sentite tutte), però in spiaggia, tra un bagno ed una lettura sotto l'ombrellone, pezzi leggerini come questo funzionano sempre alla grande.



BALTHAZAR - WRONG VIBRATION
Me lo ero ripromesso al Firenze Rocks:dovevo recuperare una canzone in particolare, ed andarmi a documentare su questi Balthazar. Pur non riuscendo a vederli, dal parco che circonda l'impianto sono rimasto folgorato dal sound di questo gruppo, e da quella canzone che viaggiava nell'aria, eterea e vibrante; "Wrong vibration" è un perfetto connubio tra rock, pop, indie, ed è caratterizzata da un basso spettacolare che ricorda alcune produzioni dei primissimi Cure (non a caso, i Balthazar erano una delle band in palinsesto prima del concerto di Robert Smith e soci). L'album da cui è tratta, "Fever", conferma l'indirizzo stilistico della band di origine belga, offrendo un insieme caleidoscopico di influenze rielaborate in modo del tutto personale; ad un primo ascolto può sembrare disorientante, ma il potenziale è evidente. "Wrong vibration" è senza dubbio il pezzo più commerciale ed orecchiabile del disco, dura poco meno di tre minuti e vola leggero come una brezza marina che si alza negli incandescenti cieli pomeridiani di agosto, tra un cocktail ed una partita a carte con gli amici.



BILLIE EILISH - ILOMILO
Avevo già analizzato qualche mese fa "When we go asleep where do we go?", il full-lenght d'esordio di Billie Eilish (potete trovare la recensione completa qui), e rileggendo ciò che avevo scritto è evidente quanto, già dopo i primi ascolti, diverse canzoni contenute nel disco mi avessero affascinato. Una di queste è ovviamente "Ilomilo", filastrocca leggerina solo in apparenza, perchè piuttosto elaborata e dal sound ricercato. Si ascolta che è un piacere, vuoi per la sua durata limitata (appena tre minuti), vuoi per il suo impianto piuttosto scarno, semplice eppure dal sapore del tutto inedito; la base elettronica si arricchisce dopo il primo ritornello in un crescendo sonoro sincopatico ed ipnotico, con il quale assume le sembianze di un vero e proprio pezzo da pista da ballo. Alla resa dei conti, tra tutti i brani selezionati in questo post, "Ilomilo" merita la palma del più particolare ed originale dell'intero blocco.



DEFTONES - SEXTAPE
Sono mesi che i Deftones monopolizzano un pò i miei ascolti. Dopo essere rimasto folgorato da capolavori come "Minerva" e "Digital bath", ho scelto un brano più tranquillo e rilassante da portare in vacanza. Tratta dallo splendido "Diamond eyes", "Sextape" è una canzone semi-acustica che dal secondo ritornello in poi si impenna, progredendo verso lidi più rockettari e per questo familiari ai Deftones. E così, mentre la voce di Chino Moreno intona all'infinito "Tonight, tonight, the sound of the waves collide", il pezzo si evolve ed acquisisce un'atmosfera liquida e rarefatta, dal sapore misterioso ed allo stesso tempo sensuale. Il testo ben si sposa con un ascolto notturno, con gli occhi rivolti al mare, proprio lì dove si sente nitidamente il suono di quelle onde che si infrangono ripetutamente sulla riva.



GRETA VAN FLEET - LOVER LEAVER
I Greta Van Fleet sono un'altra piacevole scoperta, ed attenzione, perchè vengono additati da tutti come un'autentica rivelazione:ne sentiremo parlare spesso in futuro. Suonano esattamente come i Led Zeppelin ma con uno spirito fresco e moderno, che dona a quel rock sporco che sa di revival un non so che di innovativo. Ammetto che la voce di Joshua Kiskza mi ha disorientato un bel pò, tant'è che l'impulso, ad un primo ascolto, è stato quello di accantonarli. Eppure le voci insistenti sui prodigi di questo gruppo mi hanno spinto ad andarli a ripescare quasi subito ed a prestare maggiore attenzione ai loro lavori. Ciò è servito a farmi ricredere, perchè nei Greta Van Fleet c'è molto di valido ed accattivante, ed il disco "Anthem of the peaceful army" contiene diversi spunti davvero interessanti. "Lover leaver" è scatenata ed elettrizzante, forse con un riff troppo simile a "Whole lotta love" (si parla più di omaggio che di plagio, sia chiaro), ma è un perfetto biglietto da visita per definire il sound e l'ispirazione del combo statunitense. Ascoltare per credere!


MANUEL RIVA FT.MISHA MILLE - WHAT MAMA SAID
Tiratissimo ed ipermoderno, "What mama said" sarà stato sicuramente l'asso nella manica dei dj per riempire le piste delle più famose discoteche dei litorali. 
Ormai sono un frequentatore occasionale di quell'ambiente, ma inevitabilmente, in un modo o nell'altro, qualcosa alle mie orecchie arriva sempre. Sentire questo pezzo in cuffia è un altro tipo di esperienza, più raffinata e "stereofonica" che permette di analizzarlo da un'altra angolazione, senza necessariamente perdere quella carica e quel mordente su cui è costruita la base elettronica.
Le strofe ed il ritornello cantate da Misha Mille lo rendono anche utilizzabile come sfondo sonoro a tema chill-out - quello del Cafè del Mar e delle sue compilation, per intenderci -  tipico degli aperitivi in spiaggia al tramonto.
Inoltre, tra tanto rock una virata sulla dance ci sta bene, ed è comunque una piccola rivincita per l'intera categoria, considerato che in quest'ambito latitano ormai da anni le proposte veramente valide.




MILEY CYRUS - MOTHER'S DAUGHTER
"Mother's daughter" è il nuovo singolo che segna il ritorno sulle scene di Miley Cyrus; proseguendo il suo percorso innovativo e moderno (già qualche mese fa la Cyrus aveva pubblicato un album distribuito esclusivamente in digitale, "Miley Cyrus and Her Dead Petz"), la superstar americana pubblicherà tre E.P. di sei canzoni ciascuno solo in digitale, per poi dare alle stampe l'album completo "She is:Miley Cyrus". E così, a giugno è arrivato il primo blocco di canzoni, intitolato "She is coming", al quale a breve si aggiungerà "She is here", mentre il terzo e conclusivo capitolo, "She is everything", arriverà ad autunno inoltrato. "Mother's daughter" è ingannevole:può passare per un pop frivolo e sempliciotto, ma in realtà è un brano geniale e tremendamente orecchiabile, con un messaggio piuttosto esplicito e di chiaro stampo femminista ("Oh my God, she's got the power", e più avanti "Don't fuck with my freedom"), a tratti divertente ("I'm a Nile crocodile, a piranha") ed a tratti furbetto, visto che strizza l'occhiolino a serie tv tipicamente nerd come "The chilling adventures of Sabrina" ed alla cultura cestistica dell'NBA americana  ("Hallelujah, I'm a witch I'm a witch hallelujah, swish swish I'm a three point shooter"); tirando le somme, è una paccottiglia di roba ben architettata e plasmata su tante tipologie di pubblico per piacere a tutti.
Non nascondo il mio debole per l'ex stellina di Hannah Montana, ma se da più di due mesi "Mother's daughter" impreversa in ogni tipo di playlist da me compilata (scommettiamo che un posticino se lo ritaglierà pure in qualcosa a tema Halloween?), un motivo ci sarà:il pezzo è valido, eccome se è valido. Se amate Miley, lo adorerete. Se invece la Cyrus proprio non vi piace, avete due strade:o lo evitate saltandolo a piedi pari, oppure potete provare ad ascoltarlo senza pregiudizi:le probabilità che finirete per canticchiarlo, vostro malgrado, sono altissime.



THE STONE ROSES - MADE OF STONE
Sì, lo so:si tratta di un brano di qualche anno fa, di un gruppo che si è ritagliato un posto nella storia del british-rock con appena un paio di album, il primo dei quali riconosciuto da molti come capolavoro; niente di attuale, quindi. Arrivo tardi a scoprire gli Stone Roses, ma come recita il detto, "meglio tardi che mai", il bello non è solo guardare avanti, ma anche voltarsi indietro ed andare a scovare ciò che in precedenza ci era sfuggito. Il primo disco del gruppo di Ian Brown è davvero un gioiellino con dei classici senza tempo, e "Made of stone" è senz'altro uno degli episodi più riusciti. La vena malinconica del testo (amo in particolare il ritornello, in cui Brown canta "Don't these times fill your eyes? When the streets are cold and lonely, and the cars they burn below me...Are you all alone? Are you made of stone?"), va in netto contrasto con l'atmosfera sonora leggera e solare, evidentemente ispirata da certe composizioni dei Beatles, ma anche dei Beach Boys. Negli Stone Roses è celata la nascita del brit-pop, e non è un caso che Oasis e Blur abbiano spesso citato il gruppo tra le loro influenze.
Rimarrà, per me, una delle canzoni simbolo del viaggio a Londra di quest'anno (e non è un caso che sia di un gruppo che più inglese non si può), e per questo non poteva non mancare in questa selezione, come l'album "Stone Roses" non poteva mancare nella mia personale collezione di dischi, e qui vi rivelo un piccolo aneddoto:ho dovuto inseguire per un bel pò la ristampa in doppio vinile colorato che vedete nella foto, e che a quanto pare è diventata abbastanza rara; speravo di trovarla nel mio blitz londinese, sarebbe stato l'acquisto perfetto, ma non c'è stato nulla da fare. In ogni caso, non potevo farmela scappare, ed anche se un pò a fatica - vista la quaotazione che ha raggiunto - sono riuscito ad accaparrarmela per un prezzo (quasi) onesto.



BONUS TRACK:
DARYL HALL & JOHN OATES - MANEATER
Menzione d'onore per questo pezzo "old-style", risalente al 1982, e ripescato casualmente da un episodio specifico di una nota serie tv (il nome non ve lo dico, ma in questo post c'è un chiaro indizio: la saga è già stata nominata e parla di streghe). Conoscevo molto marginalmente la produzione di Hall & Oates, e la ricerca di questo brano in particolare mi ha dato modo di scoprire ( e riscoprire) - con un "best of" acquistato in super offerta - le canzoni più note del duo statunitense, gran parte delle quali composte e pubblicate a cavallo tra gli anni settanta e ottanta. "Maneater" non mi si è scrollata più di dosso, e quando ho iniziato a cantare tra me e me il ritornello "Oooh here she comes, watch out boy she'll chew you up, oooh here she comes, she's a maneater..." ho capito che sarebbe diventata la vera e propria outsider dell'estate. La struttura e gli arrangiamenti tipicamente dance di quegli anni, oltre alle strofe iper-melodiche accompagnate da un ritornello interpuntato da efficaci controcori (che creano un ottimo impasto sonoro soprattutto nel minuto finale) hanno di certo aiutato il brano ad entrare nelle mie grazie; ma quanto è bello andare ad individuare, ancora oggi, queste chicche risalenti a quel periodo d'oro?


Ho elencato dieci personali istantanee musicali di questa estate che sta volgendo ormai al termine. Mentre le nubi si addensano in una delle ultime afe pomeridiane, mi fermo a riflettere, ancora e se mai ce ne fosse davvero bisogno, di quanto la musica sia una costante in ogni episodio, in ogni nuovo capitolo della mia vita. 
Mi piace pensare che tra vent'anni anche solo una di queste canzoni possa riportare alla mente il ricordo di una persona, o di un particolare avvenimento di questo periodo. Del resto, ciò che scrivo serve anche a lasciare uno spunto, una scintilla, un'emozione in eredità alla mia memoria. Al resto, al rivivere ciò che è stato, a far riaffiorare un volto, o rammentare un profumo, ci pensa lei, la musica. Lo ha sempre fatto.
Lo farà ancora.

(R.D.B.)

lunedì 29 luglio 2019

LIVE IN CONCERT - MUSE SIMULATION THEORY TOUR - Roma, Stadio Olimpico 20/7/19

MUSE - SIMULATION THEORY TOUR 
ROMA, STADIO OLIMPICO 20/06/19



Ventisette anni, signori. Tanti ne sono passati da quando i Muse si affacciarono per la prima volta sul panorama musicale; "Showbiz", l'album d'esordio, era un miscuglio del tutto originalissimo di rock esplosivo, ipnotico, guidato da melodie vincenti e da una voce pazzesca, quella di Matthew Bellamy, che è da sempre il loro marchio di fabbrica. Quella band sconosciuta venuta fuori da Teignmouth, con quel disco diede nuova linfa al filone del brit-rock, ormai ristagnante e sorretto quasi esclusivamente da nomi come Oasis, Blur, The Verve.
I Muse erano già allora una band che recitava uno spartito del tutto personale, ed erano già oltre i confini di qualsiasi classificazione di genere. La loro proposta venne etichettata come rock alternativo, e nonostante le radici provengano proprio da quell'ambiente, loro non erano solo quello; erano qualcosa di diverso, di unico:erano i Muse. E mentre tutti gli altri gruppi che spopolavano in quegli anni si sono un pò persi per strada (a memoria, direi che solo i Coldplay possono vantare lo stesso bacino d'utenza dei nostri), i tre ragazzotti inglesi, pur reinventandosi nel corso degli anni, sono ancora qui e sono ormai una solida realtà del rock contemporaneo. 
E di solide realtà di tale portata, credetemi, ce ne sono ben poche in giro; si contano sulla punta delle dita.
L'apertura, affidata ad una suggestiva versione di "Algorhythm" (che ritroveremo nella sua veste originale sul finire dello spettacolo), è un qualcosa di davvero magnificente, ed è talmente suggestiva da risultare addirittura epica:Bellamy scandisce le strofe "Algorhythms evolve, push us aside and render us obsolete" e mai parole furono più indovinate, perchè introducono il pubblico ad uno show visionario, fatto di luci che si muovono sugli spalti e laser che si stagliano sulla gente per arrivare sul palco, ballerini vestiti con giacche luminose che muovendosi creano effetti suggestivi, robot e scheletri giganti (in perfetto stile tridimensionale) che si agitano sul palco. La scenografia riesce a rimanere del tutto personale, ispirandosi alle atmosfere dell'ultimo disco, pur attingendo da tante idee già viste in altri spettacoli; tali idee sono di chiaro stampo ottantiano, però sono ovviamente rielaborate in chiave più moderna:del resto, la tecnologia va avanti in modo vorticoso, ed anche a distanza di pochi anni la resa di tanti effetti migliora sensibilmente.
La musica è solo uno degli elementi che vanno a comporre il puzzle, ma è ovviamente quello determinante, quello capace di legare il tutto e rendere lo show memorabile.
La scaletta è ben bilanciata tra pezzi tratti dal recente "Simulation theory" e alcuni dei grandi classici del repertorio del gruppo; ma è anche, a dirla tutta, un pò la nota dolente di questo concerto. 
Sono troppi i brani che ben si sarebbero adattati a questa scenografia e che sono stati omessi:penso a "Resistance", ma anche a "Supremacy"e "Follow me", per non parlare di "Unintended". 
Concentrare un repertorio vasto come quello dei Muse in due ore di concerto, del resto, non deve essere per niente facile. Ma il pensiero di dover affrontare "Dig down", a mio avviso una delle canzoni più brutte di Bellamy e soci, per l'occasione reinterpretata in chiave gospel (cosa che, almeno, l'ha resa più digeribile della versione originale) invece di aver modo di ascoltare uno dei brani sopra citati mi ha fatto girare un pò le scatole.
Questo pensiero non ha comunque rovinato quanto di buono i Muse sono riusciti a portare, ancora una volta, sul palco dell'Olimpico. Dopo una fase preparatoria, dove l'ultimo disco la fa da padrone con "Break it to me" e l'esplosiva "Propaganda", arrivano in successione "Uprising" e "Plug in baby", due classici senza tempo che fanno cantare e scatenare il pubblico. Ed il concerto entra nel vivo, spedito come un treno ad alta velocità senza soste:l'interludio "Pray (High Valyrian)" è un pezzo scritto ed interpretato dal solo Bellamy per un album ispirato a "Il trono di spade", ed è davvero emozionante e carico di pathos:sotto il cielo stellato di Roma fa sognare, trascinandoti in una dimensione alternativa. E', questa, la perfetta introduzione ad una successione di capolavori che mandano la gente in visibilio:"The dark side" e "Thought contagion" (due degli episodi più riusciti dell'intero "Simulation theory") sono intervallati da "Supermassive black hole", nel quale Matthew Bellamy viene supportato ai cori da Chris Wolstenholme
E così, mentre migliaia di voci intonano "Glaciers melting in the dead of night and the superstars sucked into the super massive", ritornello che somiglia ad uno scioglilingua, Bellamy dimostra (se mai ce ne fosse stato bisogno) di essere un grande vocalist, supportandolo alla perfezione con il suo falsetto e facendolo suonare esattamente come potete ascoltarlo tutti su disco.
Un breve interludio ci porta, senza abbandonare le immagini e gli effetti futuristi, ad un glorioso passato:l'accoppiata "Bliss" e "Hysteria" rendono omaggio agli esordi del gruppo inglese, segnati da due album fondamentali come "Origin of Simmetry" e "Absolution", e l'apparente contrasto tra vecchio e moderno funziona alla grande; in realtà, entrambi i brani sembrano non aver risentito degli anni che li discostano dagli ultimi successi, ed è un'ulteriore dimostrazione di come, già all'epoca, il sound dei Muse fosse innovativo. 
La parentesi dedicata a "Dig down", di cui ho già parlato, serve a calmare le acque prima di un finale col botto:quando Bellamy attacca "Madness", inforcando i suoi occhiali iper-tecnologici ed ormai iconici, lo stadio trema e tutti cantano in coro:
 "...And now 
I have finally seen the end
And I'm 
not expecting you to care
But I 

have finally seen the light
I have finally realized
I need to love
I need to love...
".
I brividi corrono lungo la schiena, ed ancora una volta ti fanno capire quanto la musica, quella buona, sia capace di regalare emozioni:è magica, è terapeutica, ed è un'autentica manna per lo spirito.
Le emozioni non finiscono qui; non c'è tempo di riprendersi, di riordinare le idee, che i tre sul palco mettono a segno altri capolavori come "Time is running out" (anch'essa tributata da un boato sin dalle prime note), "Take a bow" e "Starlight". 
Le luci impazziscono, lo scheletro con l'elmetto fuoriesce dallo schermo di sfondo, diventa reale ed agita le mani tentando di afferrare - a ritmo di musica - qualcosa dal palco, mentre il corpo di ballerini scende dalle curve per arrivare sul parterre e lanciare palloncini tra la folla. Il concerto diventa un tripudio visivo, mentre dagli amplificatori esplode la versione originale di "Algorhythm", che pulsa bassi ed adrenalina a manetta. Un vero e proprio "muro del suono" del quale Phil Spector sarebbe orgoglioso. 
E' il tempo dei bis, con un lungo medley di cinque canzoni sparate senza sosta che vede coinvolte, tra le altre, "Stockholm Syndrome" e "New born":lo show assume le dimensioni di uno spettacolo pirotecnico, quando sul finire vengono sparati i fuochi d'artificio migliori, uno dopo l'altro.
Il botto finale è affidato a "Knights of Cydonia", con il suo intro ispirato al film "Incontri ravvicinato del terzo tipo", e per questo preannunciato da immagini tratte dal film; il brano in questione va a chiudere un concerto di altissimo profilo, e di grande impatto sia visivo che musicale.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel concerto al Palladium, nel cuore della Garbatella a Roma. Era una primavera del 2001, ed "Origin of Simmetry", il loro secondo album, era arrivato da poco nei negozi; ritrovarli in uno stadio Olimpico gremito in quasi ogni ordine di posto, con migliaia di persone di tutte le età a cantare in coro "Bliss", non poteva non fare un certo effetto.
Si dice "l'assassino torna sempre sul luogo del delitto", ed i Muse hanno tenuto fede al proverbio. Qualche anno fa, nella stessa cornice romana, il concerto per il tour dell'album "The second law" venne immortalato per essere poi pubblicato in dvd; in quell'occasione i presenti avevano già avuto modo di toccare con mano l'impianto scenografico in chiave futuristica di Bellamy, Wolstenholme ed Howard; quello stesso impianto è stato sviluppato, ampliato ed elevato a potenza per questo "Simulation Theory Tour", che si è presentato sin dalle primissime battute come un autentico circo tecnologico, mastodontico ed affascinante, capace di rubare gli occhi e lasciare tutti - ancora una volta - a bocca aperta.

(R.D.B.)
VOTO:8/10


 

lunedì 15 luglio 2019

LIVE IN CONCERT - THE WHO - MOVING ON TOUR 2019 + EDDIE VEDDER + KAISER CHIEF - WEMBLEY STADIUM 6 LUGLIO 2019


THE WHO - MOVING ON TOUR 2019
+EDDIE VEDDER+KAISER CHIEF
WEMBLEY STADIUM, 6 LUGLIO 2019


THE WHO LIVE


PREMESSA - AN "AMAZING JOURNEY"
Era un appuntamento con la storia. La storia della musica. 
Un appuntamento di quelli da non perdere, e per questo, da vivere nel migliore dei modi, nelle prime file. C'era l'occasione perfetta di sentirsi, per una notte, ed una soltanto, al centro di uno stadio storico, un autentico tempio della musica dove hanno suonato tutti i più grandi, dai Queen, ai Rolling Stones, ai Beatles, a Michael Jackson
Anche se i biglietti erano costati un occhio della testa. 
Anche se l'obiettivo da raggiungere non era esattamente dietro casa. Con l'aggiunta di una breve vacanza a Londra, metropoli sempre affascinante, c'era inoltre la possibilità di rivedere dei cari amici, e il regalo (sempre ben voluto) di una manciata di giorni di totale relax, tra musei, cene e shopping sfrenato. 
E quell'attesa.
Un'attesa dolcissima cullata per tutta la durata di quei giorni, che si respirava nell'aria, e che cresceva di ora in ora.
Era il pretesto per entrare a Wembley e dominarlo da una posizione privilegiata, quasi sotto il palco, vederlo riempirsi piano piano alle proprie spalle, sentire il calore della gente che si emozionava, che cantava dietro di noi, mentre davanti agli occhi l'esibizione degli Who (un gruppo che solo nominarlo fa soffiare aria di leggenda), snocciolava classici con l'esperienza di chi è abituato a palcoscenici del genere, dall'alto degli spartiti senza tempo composti in mezzo secolo di carriera.
Noi invece, pubblico di quello spettacolo, non ci abitueremo mai a quell'oasi di gente sognante, a quei posti che sanno di storia, a quell'immensità di significati che vivono nella memoria e che ti ritrovi davanti, nel mezzo di una sera d'estate, in tutta la loro maestosità. 
Li hai visti in tv, nelle foto su internet, tra migliaia di filmati, ma esserci...beh, esserci in prima persona è tutta un'altra cosa.

L'ANTEPRIMA - "WHO'S NEXT?"
Basta uscire dalla metropolitana di Londra, fermata "Wembley park", per rimanere immediatamente paralizzati ed affascinati. Ti trovi di fronte quello stadio, alla fine di un viale lunghissimo, da lontano enorme e possente e man mano che ci si avvicina sempre più imponente e pachidermico. 
Vedi migliaia di teste che già si inseguono, in una processione che lentamente ti porta dritto nella pancia di quello che può essere tranquillamente definito come un tempio della musica, oltre ad essere stato teatro di tanti eventi sportivi importanti. 
Tu in pochi istanti sarai una di quelle teste, e quando lo realizzi ti viene la pelle d'oca; è un momento di totale spiazzamento, che nasconde in sè, allo stesso tempo, un qualcosa di solenne.  
Poi, una volta superati i controlli, ti aggiri per i lunghi corridoi in cerca del settore segnato sul biglietto, ma ti capita di sbirciare da una delle entrate che offre l'accesso al cuore dello stadio e vedi gli spalti; quegli spalti che sai già che ti stanno aspettando. 
Aspettano te, insieme a tanti altri, per prendere vita. 
Per colorarsi. Per illuminarsi.


THE WHO LIVE MOVING ON TOUR

E' roba che ti mozza il fiato, ti fa venire i brividi sulla schiena, fa allontanare tutti i pensieri, li attenua e poi li annulla per lasciare spazio solo a quel momento, a quell'emozione. 
E poco importa se Londra, pure in piena estate, quel giorno decide di essere uggiosa e grigia. 
Poco importa se per più di metà concerto riversa la sua pioggia, leggera ma incessante, sulla tua testa. Sei parte di un insieme di gente che è lì per aggiungere un nuovo capitolo ai libri di storia della musica, assemblata grazie a quelle sette note magiche ed unita dalla stessa identica passione.
THE WHO MOVING ON TOUR 2019
Lo sanno i Kaiser Chief, che dopo Imelda May offrono un campionario dei loro più grandi successi, "Ruby" compresa, e che nobilitano un'ora di attesa con della musica di ottima fattura, cogliendo l'occasione per presentare anche un paio di canzoni nuove, tratte dall'album "Duck" di prossima uscita. Lo sa ancor di più Eddie Vedder, che dall'alto della sua umiltà percepisce la grandezza di quel santuario concertistico, e per esorcizzarne la suggestione omaggia Freddie Mercury e i Queen interpretando, con il suo immancabile ukulele, "Crazy little thing called love". 
Vedder è ormai a tutti gli effetti un grande tra i grandi, ed avrebbe tranquillamente potuto essere l'headliner della serata con i suoi Pearl Jam. Da solista, ha preferito ritagliarsi uno spazio più intimo pur di essere l'apripista dei maestri che più volte ha citato come fonte d'ispirazione (prima), e come amici (dopo).
THE WHO - MOVING ON TOUR 2019
L'accoglienza calorosa si è manifestata con un manipolo di gente accorsa subito sotto al palco a dargli il benvenuto; lui ha ripagato l'affetto della folla con poco più di un'ora di grandissima musica, offrendo uno spettacolo semplice, scarno, ma di un'intensità difficile da raccontare. E' lui, da solo, con le sue chitarre ed il quartetto d'archi (già visto al Firenze Rocks) ad avere tutto Wembley di fronte che lo supporta, lo asseconda, lo segue fino all'ultima nota di "Black". E' lui che con una voce calda e con una purezza disarmante conquista la gente con "Better man" e "Alive", ed è sempre lui, coadiuvato da Glen Hansard ad imporre le emozioni della toccante "Society" (tratta dalla colonna sonora di "Into the wild").
Chiude il suo spettacolo con il medesimo spirito sulle note di "Hard sun", concedendo l'ennesima interpretazione da brividi, e stendendo il tappeto rosso alle leggende viventi pronte a subentrare a bordo palco per alimentare, ancora una volta, la magìa artistica di quel luogo sacro.

RECENSIONE CONCERTO

IL CONCERTO - "THE KIDS ARE ALRIGHT"
Quarant'anni fa, Pete Townshend e Roger Daltrey vennero battezzati a Wembley:era il loro primo concerto nel tempio. Puntuali come un orologio, tornano nello stesso luogo dove hanno gettato le basi di una carriera da incorniciare, e che nulla ha da invidiare a quella degli altri miti della musica.
Con lo stesso spirito di allora, i due - coadiuvati da un gruppo di musicisti con i fiocchi - riempiono subito lo stadio con una selezione di brani tratti da "Tommy", definito da Rolling Stone come "la più grande opera rock di tutti i tempi". Ad accompagnare il gruppo c'è un'orchestra al gran completo, che riveste in modo del tutto appropriato il sound di "Pinball Wizard", "Amazing journey" e "We're not gonna take it/See me Feel me". Ascoltare "Who are you" in questa nuova ottica è un'esperienza del tutto nuova, mentre la voce di Daltrey sembra non risentire del tempo, che passerà pure inesorabile per tutti, ma non per lui e Townshend.
 C'è spazio anche per una canzone nuova, "Hero ground zero", che farà parte di un album annunciato già per l'estate ma che probabilmente non vedrà la luce prima dell'anno prossimo, e per "Eminence front", accolta dai miei timpani con piacere incommensurabile; è, questo, un pezzo tratto dall'album "It's hard" del 1982, non troppo pubblicizzato ed a cui non vengono riconosciuti i giusti meriti; dal vivo, suonato in modo impeccabile e del tutto inaspettato, è stato un autentico zuccherino che ha impreziosito una serata già di per sè al limite della perfezione. Townshend si presenta al pubblico vestito con un completo a mò di tuta da lavoro blu, e strappa un sorriso ai presenti chiedendo se "qualcuno ha bisogno di un idraulico". Più tardi, con la voce rotta dall'emozione, trova anche il modo di ricordare Alan Rogan, tecnico scomparso poche settimane fa che ha collaborato con la band per oltre quarant'anni. Townshend si rivolge al pubblico, dicendo che "spesso diamo la vita per scontata, ma non è così. Quando sai che non hai più così tanto tempo davanti per vivere, è bizzarro; significa tanto per me essere qui stasera, e dobbiamo essere tutti contenti di esserci".
RECENSIONE CONCERTO
Il successivo intermezzo acustico serve a far rifiatare l'orchestra, ed a regalare al pubblico la prima occasione di accendere le luci (una volta erano accendini; ora sono torce degli smartphone, benvenuti nel ventunesimo secolo). Wembley si adorna così di una cornice suggestiva e senza eguali:"Behind blue eyes" si erge ad inno, lo stadio canta in coro in un insieme sconfinato di pallini luminosi sugli spalti, e quella melodia delicata si posa sulla pelle insieme alla pioggia, accarezza l'anima, e diventa magìa.
Il ritorno del supporto orchestrale è il veicolo per introdurre l'omaggio all'altra grande opera targata The Who, "Quadrophenia". Anche "The real me" e "I'm one", quindi, beneficiano di questa nuova veste sonora, mentre la performance di "The punk and the godfather" è la giusta occasione per poter richiamare Eddie Vedder sul palco, accolto da un'altra ovazione del pubblico.
La lunga suite strumentale "The rock" viene magistralmente interpretata da tutto l'ensemble, The Who ed orchestra che si inseguono, si sovrappongono, si ribaltano, mentre la batteria di Zak Starkey picchia duro e rimbomba come un tuono in ogni angolo dello stadio.

"LOVE REIGN O'ER ME"
"The rock" è il preludio alla storia, quella vera, incommensurabile, indiscutibile; quella che rimarrà indelebile negli occhi e nei ricordi dei presenti. Lo sapevamo, o meglio, ce lo aspettavamo un pò tutti, ma in questi casi, si sa, non si è mai pronti:ti ci ritrovi dentro, con un rintocco improvviso di pianoforte. 
Quel rintocco. Unico, inimitabile.
L'incipit di "Love reign o'er me" scalda da subito il cuore, ed anche se il cappuccio ormai è zuppo e l'aria carica di umidità, il mondo reale non esiste più. Esiste solo il sogno. Il pubblico è come se fosse calamitato verso il palco. Tutti si alzano, tutti vanno a cantarla insieme ai due mostri sacri, tutti uniti; un unico blocco di persone legate dalle stesse note.
Seguendo la storia di "Quadrophenia", è impossibile scindere il significato della canzone, spiegato da Pete Townshend, dalla scena che i presenti a Wembley hanno potuto vedere:"Love reign o'er me si riferisce a un commento di Meher Baba (*), che disse che la pioggia era una benedizione di Dio; il tuono era la voce di Dio. È un'altra supplica di annegare, ma questa volta nella pioggia. [...] Jimmy (**) si arrende all'inevitabile, e sai, quando torna in paese dovrà vivere la stessa merda, stare nella stessa terribile situazione familiare e così via, ma lui si è elevato ad un nuovo livello. È ancora debole, ma c'è una forza in quella debolezza."
LIVE @ WEMBLEY
E così le strofe della canzone, sotto la pioggia londinese, quasi impercettibile al tatto e visibile solo dalle luci che illuminano il palco, assumono un valore catartico:"Only love can make it rain, the way the beach is kissed by the sea...Only love can make it rain, like the sweat of lovers layin'in the fields...". Una degna conclusione a questo momento dal grande significato poetico, doveva essere affidata ad una "rinascita" sia sul piano emozionale che energetico. E questa, non poteva che essere affidata al pezzo simbolo del gruppo inglese, "Baba O'Riley", il classico per autonomasia di quella "My generation" (per riprendere un altro brano da antologia firmato The Who) tutta dei nostri genitori e che è diventata negli anni anche un pò nostra. Dopo questo concerto, lo sarà ancora di più.
"Baba O'Riley" è una canzone immortale, che piace ancora a chi, seppur nel pieno della gioventù, sa riconoscere ed apprezzare la grande musica.
Si chiude in festa, tra chi intona "Don't cry, don't raise your eye, it's only teenage wasteland", scatenato e con le mani alzate, e chi tra le lacrime ha avuto modo di rivivere, seppur per una notte, quel periodo d'oro che sono gli anni settanta. Un periodo più spensierato, probabilmente, dove tutto era più semplice e meno frenetico ed ossessivo di quel che è la vita di oggi. Chi si porta dentro quegli anni, nascosti da un viso che presenta qualche ruga in più e qualche capello in meno, non ha potuto evitare di commuoversi almeno un pò. Ed è un pò il bello di ogni concerto:la stessa musica unisce la gente, ma ogni singolo individuo ne trae qualcosa di personale, un significato, un ricordo speciale, una persona cara, un momento indimenticabile. Un'unica melodia e tante vite che si toccano, si raccontano, si guardano allo specchio.

RECENSIONE CONCERTO WEMBLEY 2019

RECENSIONE LIVE AT WEMBLEY
EPILOGO - "SONG IS OVER"
I riflettori si abbassano, il pubblico lascia Wembley. Mi volto ancora una volta per fotografare nei miei occhi quella cornice pazzesca. La consapevolezza di aver assistito, probabilmente, ad uno dei concerti più belli della nostra vita è confermata dall'incrocio degli sguardi di chi ti passa vicino, di chi si asciuga le lacrime, di chi sorride compiaciuto e di chi indossa le magliette dedicate all'evento e non solo:perchè puoi imbatterti in t-shirt vintage con il logo The Who risalente ad un tour di vent'anni fa, fino ad arrivare a magliette dei Ramones, o persino degli Stone Roses. Un conglomerato di gusti, di passioni e di ricordi uniti sotto lo stesso cielo.
Chissà se ci sarà mai un'altra occasione per tornare in un tempio storico come questo di Wembley. 
E chissà se tra un paio di decenni ci saranno ancora artisti che meritino di calcare quel palco, e che siano all'altezza di poter celebrare una carriera di un livello tale da potersi permettere di iscrivere il proprio nome nella leggenda. 
A casa, con me, sulla scrivania da cui sto scrivendo queste righe, restano un program ed un biglietto; due piccole testimonianze di una serata unica, storica.
Una serata che nè io, nè i cinquantamila presenti, dimenticheremo tanto facilmente.
Una serata che ancora non ha smesso di emozionarci.

(R.D.B.)

VOTO:9/10






(*) Memehr Baba è un guru spirituale indiano. Pete Townshend scrisse Baba O'Riley come parte di un'opera rock chiamata Lifehouse che non ha mai completato. Voleva prendere le idee di Meher Baba e in qualche modo tradurle in musica - in particolare, usando il tipo di suoni ripetitivi e modali prodotti dal compositore minimalista Terry Riley. Il brano è stato così chiamato Baba O'Riley, in omaggio ai suoi idoli. (Fonte:Wikipedia)

(**)Jimmy è il protagonista della storia narrata nel disco (e successivo film) "Quadrophenia". Quadrophenia è un'opera rock che narra, in uno spaccato della società inglese degli anni sessanta, le vicissitudini di Jimmy, un giovane mod; Il termine "mod" (abbreviativo di "modernism") fa riferimento alla subcultura giovanile che si sviluppò a Londra nei tardi anni cinquanta e raggiunse il picco di popolarità nel decennio successivo.
La vicenda di Jimmy, ambientata tra Londra e Brighton nel 1965, descrive la perdita di tutte le certezze del protagonista e la sua delusione per il movimento mod del quale era membro. Il titolo è una variazione lessicale del termine schizofrenia utilizzato nell'accezione di disturbo dissociativo dell'identità, in modo da riflettere le quattro distinte personalità (o sbalzi d'umore) di Jimmy. Allo stesso tempo, il titolo rappresenta la personalità di ciascun membro degli Who. (Fonte:Wikipedia)



domenica 30 giugno 2019

LIVE IN CONCERT - FIRENZE ROCKS 2019 - EDDIE VEDDER + THE CURE + GLEN HANSARD + NOTHING BUT THIEVES

FIRENZE ROCKS 2019:
VISARNO ARENA, FIRENZE
15 GIUGNO:
EDDIE VEDDER + GLEN HANSARD + NOTHING BUT THIEVES
16 GIUGNO:
THE CURE + SUM 41 + EDITORS + BALTHAZAR



Anche quest'anno il festival più rock di tutta Italia, il Firenze Rocks, ha portato in Italia alcuni degli artisti più famosi ed iconici della musica internazionale. Non è un caso che ormai questa manifestazione venga annoverata tra le più importanti di tutta Europa, forte anche degli oltre 350000 spettatori attratti dall'edizione precedente che ha visto alternarsi sul palco gente del calibro di Ozzy Osbourne, Guns'n'Roses, Foo Fighters, Aerosmith, Iron Maiden e System of a Down.
L'idea iniziale era quella di andare a vedere, finalmente, i Cure di Robert Smith, inseguiti da tanto tempo e mai visti con i miei occhi dal vivo; l'occasione era troppo ghiotta, e già di per sè rappresentava un piccolo sogno nel cassetto da poter trasformare in realtà. Più avanti, scoprirete anche come la band inglese sia riuscita ad esaudire un secondo sogno che custodivo gelosamente nel cuore. I Cure hanno chiuso il festival nella terza serata, ed era stato il primo gruppo ad essere aggiunto al programma del festival. Qualche giorno dopo, la scaletta dei vari giorni ha preso forma, ma l'annuncio come artista di punta della seconda serata di Eddie Vedder è sembrato come un calcio da rigore da tirare a porta vuota:con un piccolo sforzo economico non si poteva perdere il frontman dei Pearl Jam in versione solista; e così, l'idea di un concerto si è evoluta in una due giorni dall'altissimo contenuto musicale davvero difficile da dimenticare.
Ma andiamo con ordine, con una premessa:il Firenze Rocks è stato aperto, venerdì 14 giugno, da Ed Sheeran; ci sono state molte critiche per questa scelta, perchè molti hanno etichettato l'istrionico musicista, autore e produttore come "artista poco rock". Questi detrattori lamentosi, non hanno capito la vera essenza della parola "rock", ed in genere lo spirito di festival come questi:la musica è musica, che sia pop, metal, rap, jazz o quello che vi pare; i generi servono per distinguere un determinato tipo di proposta, o al massimo per orientarsi all'interno di un negozio di dischi; non per escludere, non per schematizzare, non per suddividere il mondo delle sette note. Mi pare evidente che ci sia sotto anche un discorso commerciale (Ed Sheeran è l'artista del momento, ed ha richiamato una folla di gente tale da battere il record di tagliandi strappati di tutti gli anni precedenti alla Visarno Arena), ma la parola "rock" va intesa come generica, come sinonimo di "musica", in ogni sua forma, in ogni sua sfaccettatura e quindi in ogni suo genere; quindi se chiederete al sottoscritto se Ed Sheeran è rock, la risposta mi pare ovvia:certo che è rock!
Ma non sono qui per parlarvi di ciò che non ho visto, anche se le opinioni generali ed i commenti di chi ha vissuto la prima serata sono stati unanimi:pare che il buon Ed abbia incantato i presenti con uno spettacolo ben riuscito e di altissimo profilo.
Vediamo quindi cosa ne è stato delle altre due giornate, passate sotto un caldo canicolare, spesso seduti su un telo in mezzo all'erba (roba che fa molto Woodstock) mentre il sole lentamente si abbassava per lasciar spazio a delle notti illuminate da una splendida luna e da dolcissime note fluttuanti nell'aria.

NOTHING BUT THIEVES:
La band di Conor Mason ci ha "costretto" a dover affrontare una giornata più lunga del solito; nel bel mezzo del pomeriggio, i Nothing But Thieves hanno presentato una scaletta scarna ed - ahimè - un pò mozzata a causa dei tempi ristretti (circa un'ora) che avevano a disposizione; e così, pezzi meravigliosi come "Graveyard whistling", "Last orders" e "Lover, please stay" purtroppo sono stati tagliati in favore di una selezione incentrata sull'ultimo lavoro del gruppo inglese, "Broken machine" e del recentissimo E.P. "What did you think when you made me this way?". C'è stato spazio per tre classici del loro repertorio, "Trip switch", "Ban all the music" e "Wake up call", sebbene dal vivo abbiano reso meglio le varie "I was just a kid", "Sorry" e soprattutto "Amsterdam", posta in chiusura, che ha fatto cantare e saltare diversa gente tra la folla accaldata; peccato che proprio sul bello siano evaporati, con l'aggiunta di un paio di canzoni avrebbero reso più giustizia ad una performance comunque sufficiente, che ha comunque messo in rilievo le qualità e le potenzialità del gruppo di Southend-on-sea.  (VOTO:6/10)

GLEN HANSARD:
Ammetto di essere rimasto un pò interdetto all'arrivo sul palco di Glen Hansard, cantautore e attore irlandese di cui non avevo mai sentito parlare prima. Una rapida ripassata su internet mi ha fatto scoprire che oltre ad aver interpretato ruoli in film come "The Commitments" e "Parenthood", Hansard è anche voce e chitarra del gruppo rock "The Frames". La sua proposta solista non si discosta dai dettami della sua band, ma è, se vogliamo, più intima ed orientata verso il folk ed il blues.
Il mio è un giudizio complessivo, non conoscendo i brani da lui proposti; la gran voce, senza dubbio, e le sue ottime interpretazioni in fase "live" salvano quello che, ad un ascolto superficiale, sembra uno stile un pò troppo massificato. Andrò a ripescare qualche suo lavoro da studio, e solo allora potrò esprimere un giudizio più assennato e dettagliato. (VOTO:5,5/10)

EDDIE VEDDER:
E' un Eddie Vedder in grandissima forma quello che si presenta alla Visarno Arena; la sua capacità di interagire con il pubblico, conquistandolo, è seconda soltanto al suo talento. Slegato dai Pearl Jam, Vedder offre uno spettacolo sontuoso, toccante ed intimo in totale solitudine:unico supporto sono quattro chitarre, un ukulele ed un quartetto d'archi che lo accompagna nel cuore del concerto, quando si raggiungono vette sublimi coon un'interpretazione di "Black" da brividi, in un'atmosfera mozzafiato governata da una luna piena che è autentica poesia per l'anima. Oltre alla già citata "Black", in scaletta trovano posto diversi classici dei Pearl Jam, da "Wishlist" a "Immortality" fino ad arrivare a "Pork", "Better man" (altra interpretazione maiuscola, intonata da tutta l'arena) e l'immancabile "Alive" che apre i bis. In mezzo, tanta, tantissima roba:un omaggio a Tom Petty, scomparso da poco, ed un pensiero per un altro grandissimo personaggio, Franco Zeffirelli, venuto a mancare proprio in questi giorni.  
Glen Hansard torna sul palco per duettare in un paio di brani, tra cui "Society" (tratta dalla colonna sonora di "Into the wild") e per una singolare sfida a suon di chitarre con Vedder:l'affiatamento tra i due é qualcosa che calamita applausi a scena aperta. In precedenza, il pubblico aveva potuto ricordare il film anche grazie alla toccante "Far behind", per poi divertirsi sulle note della cover dei Clash "Should I stay or should I go". Un altro omaggio è dedicato ai Pink Floyd, con l'interpretazione di "Brain damage" fino alla chiusura, epica e magnificente di "Keep on rockin' in a free world", storico brano di Neil Young che è diventato l'emblema della vena rock di tante generazioni. 
Vedder offre oltre due ore di concerto da "one-man show", lasciando il pubblico in visibilio dopo essersi scolato l'immancabile bottiglia di vino. E come del buon vino, lui più invecchia e più diventa buono. (VOTO:8,5/10)

BALTHAZAR:
Questa band non sembrava niente male, ma ripresentarsi sin dal pomeriggio sotto il sole cocente era davvero proibitivo:per quel poco che ho potuto ascoltare sotto l'ombra di un albero fuori dall'arena, i Balthazar non sono niente male, ed andranno studiati con calma. L'indie-pop del gruppo belga sembra di ottima fattura, e su tutti mi ha colpito un brano (il cui titolo è "Wrong vibration") che è un bilanciatissimo miscuglio tra brit-pop e wave stile Cure e Joy Division dal vago gusto retrò.  (VOTO:-/-)

THE EDITORS:
Per le stesse ragioni dei Balthazar, mi sono limitato ad ascoltare distrattamente anche gli Editors rimanendo al fresco del prato fuori dall'arena. Ed anche per loro vale lo stesso discorso, buona musica tutta da scoprire, e tornare a casa con il nome di due gruppi nuovi da studiare è un graditissimo regalo per un cacciatore di musica come il sottoscritto. (VOTO:-/-)

SUM 41:
Finalmente decidiamo di entrare e di prendere il posto più congeniale per farci incantare da Robert Smith e soci. Peccato però che prima salgano sul palco i Sum 41, e qui lo devo dire:che sfortuna! Avrei preferito mille volte sentire meglio e vedere i due gruppi precedenti piuttosto che i punksters canadesi. Sentita una canzone, le hai sentite tutte. Ogni loro pezzo sembra fatto con lo stampino, e non è che poi il loro genere sia capace di chissà quali voli pindarici o virtuosismi tecnici. Tengono compagnia per più di un'ora con un punk talmente standardizzato e sentito mille volte da mille altri gruppi diversi, senza un sussulto, senza un'idea di qualcosa che faccia dire, almeno una volta, "ah beh, mica male questa". Niente. L'unica cosa da ricordare? uno scheletro gigante che si materializza sul palco mostrandoci il dito medio. Bocciati senza appello, ed a questo punto difficilmente mi sentirete parlare di nuovo dei Sum 41 su questo blog.  
(VOTO: 4/10)

THE CURE:
La ciliegina sulla torta di questi due giorni all'insegna del rock sono loro, i Cure di Robert Smith, che con una scaletta-fiume di quasi tre ore ripercorrono un pò tutta la carriera trascinando immediatamente il pubblico in un vortice sonoro che si apre con "Shake dog shake" e "Burn", meraviglioso pezzo tratto dalla colonna sonora de "Il corvo" (sì, proprio quello di Brandon Lee, il primo, unico ed inimitabile). Sono innamorato di questa canzone sin dalla sua uscita, nel 1994, ed a distanza di venticinque anni non mi sono ancora stancato di ascoltarla. Inoltre, The Crow è il mio film preferito in assoluto, e quindi potrete immaginare la soddisfazione di aver avuto l'occasione di sentirla, finalmente, dal vivo:il desiderio di cui parlavo prima è stato dunque esaudito subito. 
La setlist offre diversi momento memorabili:"A night like this" arriva proprio al calar del sole, mentre la luna (la stessa diella serata prima su cui le note di Eddie Vedder avevano preso vita) si affaccia prima timida, poi sempre più luminosa, accompagnata dalla successiva "Pictures of you" che conquista definitivamente il pubblico. Il boato del pubblico si ripresenta sull'incipit di "Lovesong", mentre in "Last dance" l'atmosfera diventa poetica e malinconica:Robert Smith si avvicina alla gente, spostandosi sul lato sinistro del palco, ed i fans che già esultano ad ogni suo minimo gesto, impazziscono. Il suo carisma gli permette di conquistare la gente anche con dei sorrisi e delle smorfie apparentemente di poco conto. A differenza di Eddie Vedder, capace di interagire con molta naturalezza, Smith ci mette quasi un'ora per scrollarsi di dosso quell'impaccio che gli è caratteristico, e che lo fa sembrare timido ed alienato. 
E così si va avanti, tra hit storiche ("Fascination street" e "Never enough") e brani più ricercati ("Push" e "Wendy time") fino alla suggestiva "A forest", che galleggia nel cielo notturno, oscura ed introspettiva fino all'esplosione finale che fa gridare il pubblico "again and again and again" all'infinito. 
I fuochi d'artificio arrivano tutti (o quasi) con i bis:"Lullaby" (poteva mancare?), "The walk", "Friday I'm in love", "Close to me" e "Boys don't cry". Una sorta di secondo concerto tutto orientato al pop, capace di divertire e conquistare definitivamente il pubblico, che lascia l'arena appagato e con la consapevolezza che sì, i Cure meritano di stare lì, da headliner, tra i più grandi di sempre. 
(VOTO:9/10) 

(R.D.B.)