sabato 30 giugno 2018

LIVE IN CONCERT - PEARL JAM

PEARL JAM - WORLD JAM TOUR
STADIO OLIMPICO, ROMA 26/6/18 




L'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, ed andava colta al volo. 
Un pezzo - forse l'ultimo rimasto - di quel filone grunge che nei primi anni '90 ha travolto l'industria musicale, è atterrato a Roma in questo primo scorcio d'estate. 
E così, per una notte, i Pearl Jam hanno incantato il pubblico dello stadio Olimpico, andando al di là di ogni aspettativa e regalando ai presenti un evento davvero memorabile. E poco importa se, nei giorni precedenti allo spettacolo, ci eravamo preoccupati che potesse saltare tutto per la perdita di voce di Eddie Vedder, che aveva costretto il gruppo ad annullare la data di Londra. 
La voce di Vedder, a Roma, c'è stata, eccome.
Ne è passato di tempo dall'esplosione di "Ten" nel 1991, e sebbene l'aspetto fisico ne risenta inevitabilmente, i ragazzi di Seattle hanno ancora oggi la verve e l'energia che aveva caratterizzato i loro esordi live. Eddie Vedder non si agiterà più come prima sul palco, certo; ma non stupitevi se vi dico che un paio di salti (usando un amplificatore come trampolino) li ha comunque regalati; è vero che il tempo passa per tutti, ma se lo spirito resta lo stesso si percepisce sempre:il fuoco che si portano dentro gli artisti viene trasmesso al pubblico e la gente lo sente, reagisce, canta, muove le mani, partecipa:questa è stata la cornice che ha accompagnato i Pearl Jam qui a Roma.
La scaletta "monstre" di trentasei canzoni tra grandi classici, cover e chicche ha mandato in visibilio il pubblico romano, allietato anche da un Vedder che si è ostinato più volte a parlare in italiano (leggendo ciò che doveva dire su dei fogli che di volta in volta tirava fuori da chissà dove), rendendo il pubblico più partecipe, ed ancora più vicino alla band. 
Il momento clou? E' stato senza dubbio quando Eddie, per omaggiare Mike McReady si è incartato nel leggere la parola "chitarrista", sparando un "ma-vaffanculo!" in perfetto gergo italico.
Però, sappiate che tra aneddoti, racconti deliranti e discorsi che man mano che passavano i minuti erano sempre più biascicati (un pò tutti i membri del gruppo avevano a disposizione bottiglie di qualcosa che non era acqua, di certo), la protagonista di questa serata è stata lei, la musica. Una musica che nasce dal grunge, ma che si è distinta sin dall'inizio dai clichè del genere, ritagliandosi un'unicità tutta sua; ispirata al rock degli anni '70 (diversamente dai Nirvana che erano più punk, e dagli Alice In Chains che attingevano a mani basse dal metal), la proposta dei Pearl Jam è stata sempre originale, fresca, e per questo anche più longeva rispetto ad altre band. Se ancora oggi gli stadi si riempiono, e se tanti gruppi rock vengono ancora influenzati dalla band di Seattle, un motivo c'è.
In questo "World Jam Tour" non c'è quindi da aspettarsi giochi di luci, fuochi d'artificio o chissà quale altra diavoleria. La scenografia è fatta solo di buona musica, sano e sempiterno rock abilmente suonato ed interpretato da tutto il gruppo, affiatato più che mai.

Quando la notte su Roma è appena calata, il concerto parte quasi in sordina con "Release", che è un lento ed è una scelta curiosa per aprire; il perchè lo si capisce dopo:i Pearl Jam ti conquistano piano piano salendo di tono canzone dopo canzone. Passano la onnipresente "Elderly woman behind the counter in a small town" ed "Interstellar Overdrive", e nel frattempo l'atmosfera si è già bella che riscaldata, dando il via ad una catena di pezzi formidabile che inizia con "Corduroy", e prosegue con "Why go", "Do the evolution", la trascinante "Given to fly" e la storica "Even flow"; è una sequenza che vale già da sola metà del biglietto.
Non ci sono punti morti nè pause, il che è incredibile, quasi al limite dell'assurdo:i Pearl Jam iniziano a suonare alle 9 in punto, senza ritardi, e tirano avanti per tre ore di filato:un'impresa che ho visto fare a ben pochi, davvero strabiliante.
In "Wishlist" arriva un assolo fulminante di McReady, che squarcia la già calda atmosfera dello stadio, ma che è in realtà solo l'antipasto di quello che ci regalerà dopo. I pezzi scorrono uno dopo l'altro che è una bellezza, ed arriva "Immortality" che è un altro highlight eseguito alla perfezione, ed accolto dalle ovazioni del pubblico. C'è spazio anche per "Can't deny me", singolo che anticipa l'uscita di un nuovo album nei prossimi mesi, e per la cover di "Eruption" dei Van Halen. Immancabile - lo sospettavo - "Porch", che personalmente sopporto poco ma che (a quanto pare) nelle setlist dei Pearl Jam deve esserci sempre. Ho assistito tranquillo, con la presunzione che il meglio dovesse ancora arrivare, nonostante Vedder e soci avessero già inanellato più o meno una ventina di canzoni. 
E devo dire che non sono stato tradito.
La falsa uscita di scena (prevedibile) ha dato il via ai bis, che io oserei definire un secondo concerto. Perchè, signori, lasciatemelo dire:trovatemi un altro gruppo capace di regalarvi tredici (no, dico:tredici!) canzoni oltre alla scaletta originale.

Ed è qui, nel gran finale, che i Pearl Jam hanno spinto il piede sull'acceleratore all'impazzata; è qui che il concerto è diventato magico, e ha preso corpo, elevandosi ad evento.
"Sleeping by myself" e "Just breathe" hanno anticipato il momento più toccante della serata, quando Vedder ha chiesto  a tutti di accendere la torcia dei nostri smartphone:vedere uno stadio intero ricoperto di luci sulle note di "Imagine" è stato un momento davvero toccante, da pelle d'oca.
Da lì in poi, è stato un orgasmo continuo:"Daughter", "State of love and trust" (che è una perla risalente agli esordi, al film "Singles", e che non sempre viene riproposta dal vivo), fino ad arrivare a "Jeremy" accolta da un autentico boato, chiara reminiscenza di quell'album dei record che è stato "Ten".
Ancora una cover, stavolta con il batterista Matt Cameron al microfono (rarità assoluta:quanti batteristi avete visto cantare e suonare in contemporanea? io ne conosco solo due:Phil Collins e Don Henley degli Eagles...), che si cimenta sulle note di "Black diamond" dei Kiss e "Better man" chiudono il primo blocco di "regali" extra. Il secondo, porta in dote un altro momento di un'intensità disarmante:"Comfortably numb" dei Pink Floyd, interpretata in modo magistrale da tutta la band, e chiusa con un assolo divino da Mike McReady:in quel momento ho alzato gli occhi al cielo, e mi sono lasciato letteralmente trascinare dalla musica e da quell'atmosfera incantata, sublime, emozionante. Anche la successiva "Black", romantica e riflessiva nella sua oscurità, regala picchi di poesia da brividi, con un McReady scatenato a regalare l'ennesimo assolo sopra le righe, ed un Vedder mai stanco, con una voce pazzesca capace di spaziare dai toni bassi a quelli gridati con straordinaria incisività. "Rearviewmirror" (ah! quanto la aspettavo!) ed "Alive" (cantata per metà dal pubblico) preparano il terreno al pezzo finale, che è "Rockin'in a free world" (cover di Neil Young, con tanto di Vedder avvolto da una bandiera multicolore con scritto "Fuck Trump, Love Life"), a chiusura di una setlist a prova di bomba che non può non lasciare soddisfatti; peccato per l'assenza di "Once" e la cover di "Baba O'Riley" che l'avrebbero resa assolutamente perfetta, ma credo che riusciremo a farcene una ragione.
I Pearl Jam se ne vanno al termine di uno spettacolo dove hanno dato tutto, lanciando tamburelli al pubblico (Eddie Vedder, in realtà, alla fine regala anche la bottiglia da cui stava bevendo ad un fan), e lasciando nel pubblico la sensazione che, in una magica notte d'estate, a Roma, la musica (quella vera) ha preso davvero vita:sotto un cielo illuminato dalla luna piena, si è potuto assistere ad un concerto magnifico, carico, vero. 
Per una notte, il rock si è potuto toccare con le mani, si è posato sulla pelle, ha avvolto lo spirito e rinsaldato il cuore.



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